La ricerca dei soldi
Il progetto di costruzione di una nuova chiesa richiedeva la disponibilità di somme ragguardevoli, anche perché Desgeneys aveva in mente un edificio importante. Trovare i finanziamenti necessari a livello della Segreteria di Stato era tutt’altro che facile, se non impossibile; la Curia era esclusa – forse non fu neppure cercata – e le possibilità economiche della parrocchia erano ben lontane dal consentire spese rilevanti. A spingere e a contribuire perché la chiesa fosse realizzata furono gli stessi isolani che, tra il 1813 e il 1814, contribuirono volontariamente con donazioni in denaro che raggiunsero la somma cospicua di 2313 scudi. Quanto il progetto fosse gradito a tutta la popolazione è deducibile proprio dal numero di coloro che aderirono all’iniziativa: 303 persone, un numero molto alto se riferito al numero degli abitanti che all’epoca si aggiravano attorno alle 1800 persone. Primo tra tutti i donatori, per l’entità della cifra donata, fu come il solito, il “generale caposquadra” che offrì 50 scudi; lo seguirono molto da vicino Agostino Millelire e l’avvocato Brandi che misero a disposizione 40 scudi ciascuno. Poi molti altri con elargizioni più o meno generose, come quelle dei padroni marittimi (che diedero mediamente 30 scudi a testa) fino ad arrivare a quella, più modesta, di Arcangelo “il pescatore”: mezzo scudo, sempre più di Paolo Martinetti personaggio forse non ricco ma abbastanza facoltoso che si limitò ad uno striminzito 0,1 scudo. Il clero locale non si fece indietro e il Vicario Biancareddu e il vice Parroco Demuro portarono alla cassa 10 scudi ciascuno, mentre due scudi furono versati dal precettore Luca Ferrandicco. Fra i pochi che, alla data della compilazione dell’elenco dei donatori, non avevano dato nulla vi era il bailo Carzia e sua figlia Emanuela.
Oltre alle donazioni in denaro contante, la fabbrica procedeva anche grazie a prestazioni d’opera gratuite da parte di artigiani per un totale di 216 giornate di lavoro; Domenico Baffigo e Giovanni Carotto furono quelli più liberali: misero a disposizione trenta giornate ciascuno. Lavoro gratuito era offerto, in cambio di sconti di pena, anche dai forzati del bagno penale.
Gli equipaggi delle gondole militari della Real Marina devolvevano frequentemente alla fabbrica della chiesa la quota loro spettante della somma che proveniva dalla vendita delle imbarcazioni barbaresche catturate e dei relativi equipaggi fatti prigionieri.
La più rilevante delle donazioni da parte di quella classe sociale (e anche la più tormentata, perché prima di riuscire a entrarne in possesso passarono diversi anni e dovettero essere superati numerosi ostacoli burocratici) ammontò a 500 scudi, frutto di una cattura avvenuta nel 1792: probabilmente era destinata all’ampliamento della chiesa voluto in quell’anno da De Constantin, ma le lungaggini per la vendita delle imbarcazioni e degli schiavi turchi non consentirono di avere la somma disponibile in quell’anno. Il mandato di pagamento, che si era perso nei meandri della burocrazia cagliaritana, fu rintracciato il 6 agosto 1814 dal Comandante De Constantin, di ciò incaricato direttamente da Desge-neys, il quale prima di lasciare definitivamente La Maddalena, nell’aprile precedente, aveva più volte sollecitato la Segreteria di Stato: nel 1805 aveva inviato una lettera molto dura nella quale ricordando che il credito degli equipaggi era sacro e privilegiato reclamava i 500 scudi devoluti per la chiesa di Santa Maria Maddalena “que la Marine vènere comme la pro-tectrice des armements”.
In quel momento la situazione era abbastanza critica: il vecchio cappellone era già stato in parte demolito, mentre la nuova chiesa non era ancora ultimata; mancava addirittura la copertura e si contava di utilizzare la donazione dei marinai proprio per la costruzione del tetto.
L’impegno di De Constatin sorretto dall’interessamento autorevole dell’ammiraglio diede, alla fine i suoi frutti: la somma fu integralmente recuperata, anche se a rate, e la costruzione potè procedere.
I marinai continuarono nel tempo a “girare” alla chiesa i loro diritti di preda: alla fine del maggio del 1815 donarono il compenso per aver recuperato una gondola maddalenina che era stata in precedenza catturata dai mori; insieme all’imbarcazione furono presi prigionieri i quattro turchi che si trovavano a bordo; il diritto di preda per gli equipaggi ammontava ai tre quinti della somma totale ricavata dalla vendita del galleggiante e dei componenti dell’equipaggio catturati ma, in alcuni casi speciali, come questo, il Re (o, in questo caso, la Regina) lasciava disponibile l’intera somma.
Anche Desgeneys, come sempre sollecito nei confronti dell’isola, fece una nuova contribuzione in denaro trasferendo alla progettata impresa un suo credito di venticinque scudi vantato nei confronti di un tale Chinelli. L’ammiraglio ripeté il suo sostegno anche in epoche successive, come nel 1838 quando ordinò un accredito di duecento lire.
Si attivò un po’ tutta la popolazione: gli ufficiali si autotassarono, la fabbriceria, col consenso del Vescovo, mise a disposizione cento scudi. De Constantin azzardò a proporre una ricompensa in denaro per i maddalenini che volontariamente si erano imbarcati su una gondola privata che, insieme ad un’altra aveva predato una lancia e uno schiffo turchi con sedici barbareschi. De Constantin sapeva bene che “qualunque proposta di elargizione pecuniaria addottabile alla circostanza non [avrebbe potuto] avere effetto per la mancanza di fondi del Regio Erario”. L’ufficiale propose allora che fosse lasciato ai maddalenini l’intero ricavato della preda, anche quello spettante all’erario, e anche quello, abitualmente non considerato, corrispondenti al valore dei due turchi morti nell’azione: ma, soggiungeva, il tutto fatto con celerità, con prontezza, vendendo la lancia immediatamente a La Maddalena, derogando dalle lunghe procedure burocratiche usuali. Suggeriva inoltre che una “ricompensa onorifica”, che avrebbe “animato maggiormente il zelo dei popolatori della Maddalena”, ” dovrà consistere nei sensi del Real Ringraziamento che S.M.La Regina potrà degnarsi di far loro esprimere”. Ad ogni buon conto, il pratico De Constantin allegava una bozza di lettera che il reggente la Segreteria di Stato avrebbe potuto inviare al comandante Millelire con i ringraziamenti della Regina. Più di così non si poteva davvero fare!
Per aumentare la forza lavoro senza aumentare i corrispondenti costi, la Regina elargì sconti di pena ai condannati che erano impiegati nei lavori; da tale beneficio rimasero esclusi, per la rigida opposizione della stessa Regina, tre detenuti, Fanni, Floris e Cadoni, condannati alla galera a vita per delitti contro lo Stato.
Un altro pregiudicato, Andrea De Andreis, vide deluse le sue aspettative di ottenere clemenza. Il soggetto era un poco di buono: in quel momento circolava libero a La Maddalena, ma in precedenza aveva subito diversi processi “per furto e altri delitti” e il giudice di Diano, nel 1803, lo aveva condannato a sei anni di galera per aver dato frequentemente ricovero a banditi sulla sua bombarda, tanto che questa veniva chiamata “la bombarda dei ladri”. Un’altra sentenza, sempre del giudice di Diano, lo aveva condannato a sessanta anni per essere “evaso dalle carceri di Diano uccidendone il custode”. De Andreis chiedeva di rientrare liberamente in Liguria patteggiando, come si direbbe oggi, la pena con un anno di servizio nella regia marina e l’offerta di ” 100 pezzi duri alla chiesa della Maddalena sua patria”. Il Consiglio Comunitativo, sorvolando tranquillamente su questioni morali o di principio, era ben disponibile ad avallare la richiesta e ne chiedeva consiglio a Desgeneys. L’ammiraglio, di fronte alla cospicua somma che sarebbe andata a vantaggio della chiesa, si dimostrò disposto ad accogliere la proposta del furfante omicida. L’Avvocato Generale Fiscale era, invece, del parere che dovesse scontare le pene per i suoi misfatti e, comunque, consigliava, nel 1816, che il De Andreis rimanesse lontano; “lontano dalla sua spiaggia” e di comportarsi “colla maggiore prudenza e onestà onde non dar luogo a rammemorare in suo danno la sentenza che lo ha percosso e che potrebbe tuttora essere richiamata in vigore”. Così si dovette rinunciare, a malincuore, ad un bel contributo.
Anche la cessione di materiali, da quelli per costruzione a quelli di arredamento, costituiva, ovviamente, una forma di contribuzione: tra tutte si distinsero le offerte di Desgeneys, come sempre molto generoso: il pavimento, fu ricoperto con 1.700 “chiappe” di ardesia e 2.000 quadretti di marmo fatte arrivare sull’isola dal nobiluomo piemontese nell’agosto del 1822 e subito poste in opera a cura dei forzati messi a disposizione dal comandante militare De Andreis; questa prestazione d’opera da parte dei forzati procurò un provvedimento disciplinare a carico del tenente Canepa il quale aveva avuto l’ordine di inviare un picchetto di soldati per la sorveglianza dei detenuti. Chissà perché, il giovane ufficiale decise di non ottemperare all’ordine e al De Andreis non rimase altra possibilità che mettere agli arresti l’incauto reprobo! Anche il ferro per la ringhiera, l’altare di marmo (inviato nel 1831), la balaustra e il pulpito (1827), che sostituì quello donato trenta anni prima da Millelire, erano regali dell’ammiraglio, particolarmente devoto a Santa Maria Maddalena. Andando avanti nel tempo, si raccolsero nuovi finanziamenti, che provenivano sempre dalla marineria: il priore della compagnia di S. Erasmo e i padroni marittimi riuscirono, nel 1841, a raccogliere la somma necessaria per acquistare una nuova campana. La popolazione pagò, indirettamente, di tasca propria l’iniziativa, perché le autorità comunali decisero di finanziare l’impresa aumentando il dazio sul grano e sul vino.
Di fronte a tanta munificenza, non possiamo sottacere altri più umili donatori come, ad esempio, il capo mastro Pietro Biagi che regalò il modesto ma utilissimo quantitativo di 30 some di calcina.
Non è facile stabilire con precisione lo stato di avanzamento dei lavori della chiesa negli anni 1815-16, ma sappiamo che il clima doveva essere positivo e pieno di speranza visto che da allora compare, fra le spese del culto, una spesa per l’acquisto di “polvere nel giorno di Santa Maria Maddalena”, che si manterrà per diversi anni.
Ma i soldi continuavano a mancare e alla fine, stante la penuria di mezzi finanziari, il Consiglio Comunitativo, desideroso di portare a termine l’impresa, decise, nel 1816, di tassare tutta la popolazione proporzionalmente al reddito di ciascuno. Provvedimenti di questo genere erano stati adottati anche in precedenza quando gli amministratori disposero che al rilascio di una licenza edilizia il concessionario dovesse corrispondere la metà della pietra tagliata a favore della costruenda chiesa. Anche il notaio Sini dovette pagare il suo scotto: per ogni atto del Consiglio Comunitativo, per il quale riceveva tre reali, avrebbe dovuto lasciarne uno per la chiesa. Nel 1815 ancora una volta in condizioni critiche di approvvigionamento di grano, quando i padroni erano costretti a comprarlo in determinati mercati sardi, a custodirlo a loro spese e a venderlo alle condizioni stabilite dal Consiglio in modo da garantire che tutti ne ricevessero secondo le necessità, si stabiliva che, nel caso di inadempienze, avessero dovuto pagare una multa: questa sarebbe andata a beneficio della chiesa.
Una spesa ulteriore, che andò ad aggiungersi a quelle già previste, fu quella che si dovette sostenere per costruire tre nuove case in sostituzione di altrettante (in realtà tre vani) della famiglia Ferracciolo che erano state demolite per dare spazio alla chiesa. I nuovi piccoli fabbricati furono eretti alle spalle della chiesa, nell’attuale piazza Amsicora; negli anni successivi la proprietà passò al genero di Ferracciolo, Battista Zicavo Depauli e, con i rimaneggiamenti avvenuti nel tempo, nel 1962 era composta di due vani a piano terreno e due al primo piano con sgabuzzino ricavato su scala interna. In quell’anno i proprietari Mariuccia, Gerolamo, Claudio Ornano e altri ne fecero donazione alla parrocchia e, per essa, al Parroco. Zicavo Margherita, Luigia e Maddalena restavano usufruttuarie del bene.
Alberto Sega