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Ferula

Ferula (nome scientifico Ferula communis, nome locale ferrula). Artcolo della ricercatrice e scrittrice maddalenina Giovanna Sotgiu.

La Ferula communis, volgarmente conosciuta come Ferrula o Ferula, è originaria del bacino del Mediterraneo. Appartiene alla Famiglia delle Apiaceae, Genere Ferula, Specie Ferula Communis. Il suo nome deriva dalla lingua latina, dove il vocabolo significa “pianta a fusto dritto”. E’ una pianta erbacea perenne alta da 1 a 3 metri, con fusto eretto, un po’ legnoso alla base e ramoso nella metà superiore; pianta a riposo d’estate è poco appariscente in inverno, mentre in primavera, alla fioritura, il fusto si allunga in un alto scapo fiorale che persiste a lungo sulla pianta anche quando è secco. Le foglie basali sono lunghe 30-60 cm o più, con ampie guaine, più volte pennate, a lacinie lineari mucronate. I fiori abbastanza piccoli sono riuniti in numerose ombrelle, la centrale a 25-40 raggi, mentre le laterali sono più piccole; prima della fioritura le ombrelle sono avvolte dalla guaina rigonfia della foglia; i petali sono gialli ed i frutti, lunghi 12-18 mm, sono diacheni appiattiti con le coste laterali saldate in un’ala. Fiorisce tra maggio e giugno.

La pianta è ben conosciuta nell’arcipelago e, un tempo, temuta come causa di morte per il bestiame. In effetti gli animali mangiavano in grande quantità le sue foglie morbide e profumate e la loro pancia “si gonfiava”: il “veleno” provocava sbocchi di sangue dalla bocca e dall’ano, segno evidente di emorragie interne, le bestie gravide abortivano e quelle più giovani morivano. Ma i pastori non sapevano spiegarsi perché non sempre le conseguenze erano mortali. Allora pensavano che ciò dipendesse dal sito sul quale la pianta cresceva: quindi erano convinti, ad esempio, che quella di Santa Maria non portasse alla morte. Oppure che non tutti gli animali reagissero allo stesso modo: quindi che capre e pecore potessero cibarsene senza conseguenze, mentre fra gli animali vaccini i più giovani erano maggiormente esposti al pericolo di morte. O che certi cambiamenti climatici intervenissero a peggiorare la situazione: quindi si attribuiva al maestrale o alla pioggia la responsabilità di rendere più tossica la pianta. In ogni caso si cercava di eliminarla dai pascoli tagliandola sistematicamente tutti gli anni, ma senza riuscire a liberare completamente il terreno. Qualcuno suggeriva allora di togliere la terra superficiale e di deporre sulla base della ferula del sale per farne seccare l’apparato radicale.

Quando nel 1767 i sardo-piemontesi occuparono l’arcipelago e dovettero costruire il primo trinceramento, il trasporto dei materiali fu fatto a “schiena d’uomo, non potendosi valere dei cavalli, per ritrovarsi in dett’isola un’erba ai medesimi nociva”. Oggi, scomparso il bestiame dalle nostre isole, la ferula svetta tranquillamente con il suo fusto alto fino a due metri, ornato di numerose infiorescenze di fiori gialli e regala ai fortunati o abili cercatori di funghi il prelibato sallazzuru (Pleurotus ferulae).

La pianta secca trovava comunque diversi utilizzi: lo scapo serviva a fare sgabelli e seggioline con spalliera per i più piccoli, graticci e soppalchi mobili da sistemare in modo da far affumicare salumi e formaggi, ma era anche ricercato dai barbieri per affilare i rasoi. I bambini trasformavano lo scapo in un cavallo col quale correre a gara con i compagni: la velocità delle gambe del bambino veniva attribuita al “cavallo”, frustato senza pietà nel corso della gara.

La ferula, nei secoli, ha alimentato non poche leggende. La più nota è quella che parla dell’origine del fuoco, giunto sulla terra per mezzo di un bastone ardente proprio nella spugnosa cavità di una ferula. Alla pianta, infatti, viene attribuito il merito di aver trasportato sulla terra il fuoco custodito negli inferi. La ferula, secondo la leggenda, fu il mezzo utilizzato da S. Antonio abate per rubare il fuoco dall’inferno per donarlo agli uomini; il Santo, si narra, ottenuto il permesso dai demoni di entrare all’inferno per riscaldarsi, li ingannò, frugando col suo bastone di ferula fra i tizzoni ardenti fino a che una scintilla accese il midollo spugnoso all’interno; quando uscì dall’Inferno poté così, senza farsi notare, portare via il fuoco donandolo all’umanità. All’origine della leggenda del fuoco di S. Antonio c’è indubbiamente il mito del furto del fuoco, elemento celeste, compiuto da Prometeo ed elargito agli uomini. Per questo Zeus lo condannò e lo fece incatenare sul picco di una montagna dove ogni giorno un gigantesco rapace gli divorava il fegato che la notte si riproduceva in continuazione per rendere perenne il supplizio.

In tempo antico alla pianta sono state attribuite anche altre qualità magico-religiose. La cultura sarda del passato attribuiva alla ferula delle virtù soprannaturali, come dimostra ad esempio il rito praticato dell’invocazione al diavolo per far cessare la siccità. Si narra che anche fino a qualche secolo fa nel centro Sardegna, nei lunghi periodi di siccità, proprio con la ferula si costruivano delle portantine che, ornate di erbe e fronde, venivano portate in giro per le vie del paese recitando: “Maimone, Maimone /abba cheret su laore /abba cheret su siccau /Maimone llau llau!” (“Maimone, Maimone /acqua cerca il frumento /acqua cerca la terra riarsa /Maimone lodato lodato!”). Le donne dalle finestre spruzzavano acqua sulle portantine per potenziare la “preghiera” a questa divinità infera, artefice del bello e del cattivo tempo.

L’economia essenziale praticata dalla civiltà agricola e pastorale nei secoli passati, che con intelligenza utilizzava tutto quanto poteva risultare utile nella vita quotidiana, aveva cercato di valorizzare anche la ferula che, pur essendo un vegetale poco gradito per la suaa tossicità, doveva, anch’esso, contribuire a fare la sua parte nella magra economia di sussistenza. Già al tempo dei Romani Marziale scriveva che i fusti della ferula servivano ai maestri come sferze per le punizioni corporali degli scolari riottosi. Nel Medioevo, invece, gli amanuensi utilizzavano i fusti più grossi della ferula per conservare negli scapi internodali, svuotati ed essiccati, i manoscritti più preziosi e delicati. Nell’Isola, da secoli, con i fusti secchi della ferula si sono costruiti sgabelli, sedie e tavolini, che avevano il pregio della leggerezza unita alla solidità. I flessibili e leggeri bastoni della ferula in casa del pastore (o in “Su Pinnetu”), diventavano preziosi graticci, “sos cannitos”, che servivano per stagionare il formaggio; assemblando scelti fusti di ferula con cordame vegetale, gli abili pastori creavano un comodo piano d’appoggio che, appeso al soffitto, conteneva le forme di formaggio da affumicare o stagionare. La leggerezza e la resistenza della ferula consentivano anche la fabbricazione di pregiati e curiosi giocattoli per i bambini: cavallucci, seggioline, animaletti e strutture per le bambole di pezza, quando non si aveva di meglio. Unitamente al sughero i fusti di ferula erano la base per la fabbricazione di tanti oggetti domestici di uso corrente.

Si direbbe che, se la ferula non è pianta commestibile per gli animali, tanto meno dovrebbe esserlo per le persone. Il pastore, invece, se temeva la moria del bestiame per l’ingestione della ferula, non aveva, però, paura di mangiarla. In tempi di carestia, è pur vero, che anche la ferula diventava cibo prezioso! In Baronia, nei secoli passati, i pastori mangiavano con il formaggio qualche fettina di gambo fresco di ferula, forse per esorcizzare la possibile moria del bestiame. Un “transfert” di vaccino mitridatico? Forse, comunque questo mettere a rischio la propria salute per quella del gregge, fa capire quanto il bestiame e il pascolo fossero vitali nell’economia pastorale sarda, tanto da provocare abigeati e faide generazionali ancora non scomparse del tutto.

A questo proposito, storicamente, c’è una tradizione antica di edibilità della ferula testimoniata ad esempio da C. Durante, che scrive nell'”Herbario nuovo” pubblicato nel 1585: “…cavano i pastori alle ferole quasi nel primo nascimento, un certo cuore simile a un torzo d’uovo duro: il quale cotto sotto cenere calda, bene involto in carta o in pezza bagnata, et mangiato poscia con pepe et con sale, è veramente gratissimo cibo, et convenevole assai per fortificare i venerei appetiti…” (facendo intendere, quindi, che avesse un certo potere afrodisiaco). Anche Siro Vannelli nel libro “Erbe selvatiche e commestibili della Sardegna”, sostiene di aver mangiato durante una manifestazione conviviale organizzata dalla cooperativa “La Siniscolese” nel 1988, il midollo di ferula cotto come detto sopra, senza però restare particolarmente colpito dalla sua qualità organolettica. Non fa cenno, però, Vannelli, alle qualità afrodisiache!

Ogni pianta che esiste sulla terra, cari amici, ha una sua funzione ben precisa, e anche la ferula non sfugge a questo destino. Un altro esempio di utilità della ferula è dimostrato dal “connubio” che la lega ad una bellissima farfalla: l’Ospitone. Essa appartiene ad una specie endemica della Sardegna e della Corsica, è piuttosto vistosa, per colore e dimensioni, raggiungendo i 7-7.5 cm di apertura alare. La colorazione di fondo delle ali è gialla con reticolatura scura. La farfalla si nutre di nettare dei fiori di varie specie, ma in particolare delle composite spinose come i cardi. La femmina depone le uova nelle foglie della ferula tra giugno e luglio. A luglio compaiono le prime larve. Il bruco d’ospitone in Sardegna si nutre quasi esclusivamente di germogli di ferula.