La Maddalena AnticaLa Marina Sabauda dal 1768 alla restaurazione

Finanze e Marina

Dati i problemi che aveva di fronte, Vittorio Emanuele I cercò di impiegare le scarse risorse del Regno nel modo migliore e di riorganizzare il personale militare. Il 22 aprile 1806 con un Regio Viglietto rese autonoma l’amministrazione della Marina, pur lasciandola soggetta al controllo dell’Ufficio del Soldo. Poi costituì una Cassa di Marina, diretta da un apposito Consiglio, che doveva provvedere tanto alla gente imbarcata quanto a quella di Fanteria di Marina. Il problema era adesso quello di individuare le fonti di finanziamento della Cassa di Marina. Infatti la tecnica fiscale del periodo antecedente la Rivoluzione Francese non era molto sofisticata e non aveva, come in seguito, un afflusso di tutte le entrate a un unico tesoro dello Stato, dal quale poi il denaro veniva ripartito di anno in anno a ogni branca dell’amministrazione civile e militare secondo le necessità. A quel tempo era difficilissimo tassare i beni mobili, e le tasse gravavano su quelli immobili, purché non appartenenti alla nobiltà o al clero. Poiché però il gettito era insufficiente, ne esistevano altre, indirette, sui generi di largo consumo – pane, sale, carne, vino, birra, tabacco – sulle transazioni di qualsiasi genere, mediante l’imposta di bollo, e, infine, sugli scambi commerciali attraverso il pagamento di dazi e pedaggi. È inutile dire che il sistema aveva moltissime pecche, tant’è vero che negli Stati italiani aveva provocato rivolte di varie dimensioni, come quelle di Palermo, di Napoli nel 1647 e di Messina nel 1674.

Per far fronte alle necessità belliche, quando il gettito fiscale non bastava, era comune il ricorso ai prestiti, garantendoli colle rendite di alcune parti dei territori. Dunque, ammesso che il denaro si trovasse, affluiva alle casse dello Stato attraverso due canali: uno, generalmente detto “Camerale”, che radunava le imposte provenienti dai beni immobili, e l’altro, il “Contribuzionale”, che raccoglieva la tassazione indiretta e quella sui beni mobili. Le somme radunate però non erano fuse in un’unica cassa e ridistribuite secondo le varie necessità, ma avevano fin dall’inizio una loro destinazione. Così si sapeva in partenza che i redditi di una certa miniera avrebbero alimentato un certo numero di reggimenti, ed esclusivamente quelli, mentre i proventi di certi diritti di dazio sarebbero serviti solo al mantenimento di determinati uffici, e le rendite di una circoscritta porzione dei domini reali al pagamento di un certo numero di pensioni nominative; e quei fondi, una volta stabilita la loro destinazione, non avrebbero potuto essere adoperati per finanziare altri enti o necessità. In questo modo la situazione era sempre sul filo del rasoio. Una carestia – tutt’altro che rara – implicava l’impossibilità di pagare un intero settore dell’apparato civile o militare. Una cessione di diritti o di rendite comportava la necessità di nuove imposte, specificamente dirette a coprire il buco apertosi in certe contabilità. Una sconfitta militare e la conseguente perdita di territori privava del sostentamento centinaia di persone o costringeva a sciogliere i reggimenti che il Sovrano manteneva colle rendite di quei medesimi territori. Ora, per quanto riguardava la Marina sabauda, applicando un simile farraginoso sistema, i fondi per il suo mantenimento furono individuati nell’esclusiva di alcune entrate dello Stato e cioè: i diritti d’ancoraggio riscossi in tutti i porti del Regno di Sardegna; quelli di tonnellaggio (sarebbe a dire la tassa di 7 denari e 6 soldi sardi per tonnellata piena e 5 soldi per tonnellata vuota) pagati da tutti i legni da carico che non facevano scalo a Cagliari; i diritti sull’uso dei macchinari di carenaggio, dei ponti di calafataggio, delle cucine e dei servizi forniti dalla Regia Darsena di Cagliari; i diritti sulla pesca fatta dalle barche adibite alla raccolta del corallo; i redditi delle pescherie di Bosa, Cagliari e Corti Perdas; quelli delle tonnare reali, e i diritti sulla lavorazione del tonno e sulla produzione di pesce conservato; il sussidio ecclesiastico; le decime sui beni dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e un terzo dei redditi derivanti dai cosiddetti benefici di risulta. L’ammontare di tutte queste entrate si aggirava sulle 100 000 lire di Sardegna, (5) cifra che sarebbe poi rima-sta pressoché invariata fino alla Restaurazione. Infine, sempre nel miglior stile antirivoluzionario, la Cassa della Marina aveva un’amministrazione separata da quella delle Finanze e delle altre casse e, in pratica, di tutti i soldi che riceveva e di come li spendeva Des Geneys rendeva conto direttamente e solo al Re.

NOTE:

(5) Esattamente 101.539 lire, 3 soldi e 6 denari.