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Giuseppe Riva

Giuseppe Riva nacque a La Maddalena nel 1921 da Giovanni Riva (noto Antonio), di Santa Teresa, e Teresina Pellizzari, originaria di Bosa. Nel 1913 Giovanni era dovuto emigrare in America in cerca di fortuna. Non ne fece, ma lavorò tanto sodo da da poter mandare alla parsimoniosa Teresina non solo il denaro per vivere dignitosamente, ma anche per acquistare una casa in via Tomaso Zonza. Qui, un anno dopo il suo ritorno, nacque Giuseppe, secondogenito di quattro figli e unico maschio.
La religiosità della famiglia, particolarmente della madre, dovette influenzare parecchio Giuseppe che cresceva vivace, sano e robusto, tra una scorribanda nei vicoli del centro e una messa servita da chierichetto.
A lungo dibattuto tra la vocazione incalzante ed i richiami forti e secolari provenienti da Cala Gavetta, a 15 anni prese la decisione di iscriversi al seminario di Tempio.
Terminati gli studi liceali, andò a studiare presso i Salesiani di Lanusei, dove assorbì l’insegnamento di Don Bosco: Spirito di carità verso i bisognosi ed impegno nella educazione dei giovani.
Ordinato sacerdote a Tempio il 13 Agosto del 1945 dal vescovo Albino Morera, celebrò la prima messa a La Maddalena il giorno di ferragosto, attentamente seguito dal parroco don Capula (che aveva avuto gran parte nella sua decisione vocazionale) e dai due viceparroci: l’anziano Don Maciocco (che morirà di lì a un mese) e l’energico calanganese don Salvatore Giacomini.
Nonostante le aspettative di un suo immediato impiego nell’Isola per circa un anno fece il vice parroco a San Pasquale con incarichi anche nelle frazioni della bassa Gallura ed a Tempio.
A La Maddalena fu trasferito nel 1947. Erano gli anni difficili del dopo guerra, caratterizzati da miseria, da disoccupazione e dalla contrapposizione ideologica fonte di lacerazioni e disorientamento.
Nei primi anni ’50 don Riva, profondamente amico di molti comunisti, ma ortodosso nell’avversione all’ideologia, venne incaricato di occuparsi della chiesa di Due Strade e del relativo rione disordinatamente sorto a cavallo dei due secoli con le consistenti emigrazioni legate ai lavori della piazzaforte militare. Qui il trentenne don Giuseppe, dal carattere concreto e generoso, ma non sempre facile, con il contributo e l’aiuto dei fedeli si gettò nell’impresa di costruire l’oratorio con tanto di asilo, mensa e sala riunioni.
Si occupava anche dei gruppi della gioventù femminile, coadiuvato da suor Anna dell’Istituto San Vincenzo, non tralasciando l’impegno a favore degli anziani, la maggior parte dei quali all’ora senza pensione, e dei bisognosi in genere.
Nei primi anni ’60 don Capula lo incaricò di seguire il rione di Moneta e di dir messa nella lontana Stagnali, che raggiungeva in bicicletta prima ed in lambretta poi.
Don Giuseppe aveva da tempo chiesto di andare missionario in Africa, ma non fu accontentato; il terzo mondo lo cercò e lo trovò nella sua Isola. Nelle colonie estive di Stagnali che, organizzate per i giovani, ospitavano anche anziani, nacque il primo nucleo, tre vecchine sole e abbandonate, dell’Oasi Serena. Terminata, l’estate, don Giuseppe se le portò prima a casa della madre poi, sistemato in un locale annesso alla chiesa, a Moneta.
Nel 1964 il vescovo monsignor Giovanni Melis, vuoi per le richieste dei parrocchiani di Moneta, vuoi per un senso di real-politik (far convivere nella stessa isola due caratteri come quello di don Capula e don Riva), istituì la parrocchia di Moneta. Godendo della relativa autonomia, don Giuseppe si gettò in attività pastorali, di educazione, di assistenza e di “costruzione”. Gli anni ’70 ed i primi anni ’80 furono il periodo di attività, entusiasmo e fervore e di grande collaborazione dei parrocchiani alle molteplici attività da lui avviate.
Organizzò l’oratorio per i ragazzi, rilanciò l’Azione Cattolica, sorsero Comunione e Liberazione, la filarmonica di San Domenico Savio (utilizzando alcuni strumenti della banda Mandalari in qualche modo da lui recuperati e conservati), i boys Scaut. Altre cose non riuscì a realizzare nonostante l’impegno: la scuola professionale per ragazzi e Radio Serena (per la quale possedeva già in parte la strumentazione). Nel frattempo erano cominciati i lavori di costruzione dell’Oasi Serena con il contributo in denaro e le prestazioni di molti parrocchiani e non.
Fu in questi anni che don Giuseppe lo si vide sempre meno con la tonaca e sempre più con la tuta. Con estrema disinvoltura passava dal cemento alle particole consacrate, dagli impasti alle messe, dai blocchetti al cucchiaio con il quale imboccava, se occorreva, i suoi “ospiti”. Un vero prete operaio: assai prete e assai operaio. Nel 1975 inaugurò il primo lotto dell’opera che poi, tra difficoltà, interruzioni, modifiche, assunse dimensioni e forme attuali.
Dell’Oasi Serena si è parlato molto, a volte non bene, come pure del suo frenetico attivismo e anche del suo carattere. Certo, forse l’Oasi si poteva tenere meglio, più organizzata e non quasi esclusivamente sul volontariato. Un fatto però è certo, all’Oasi don Giuseppe raccoglieva persone sole, povere, malate; tutti trovavano un tetto, un pasto caldo è un po’ di conforto. Una piccola fetta di umanità isolana che altri indaffarati, frenetici, moderni, benpensanti, non avevano tempo ne voglia di accudire, di assistere, e spesso neanche di ascoltare.
Don Giuseppe per quelle persone, fu lì, in prima fila, giorno e notte.
La sua vicenda terrena si è chiusa a 75 anni in una calda nottata di fine agosto. Come lui aveva disposto, non unj fiore c’è stato al suo funerale ed il seppellimento è stato nella nuda terra.
A lui forse una cosa si può rimproverare: ha speso la vita facendo ogni sforzo per servire gli altri, ma altrettanto sforzo non ha fatto per farsi comprendere dagli altri.