I monumenti realizzati con il granito maddalenino
L’opuscolo stampato dalla SEGIS nel 1919, con l’aggiunta di appendici fino al 1931, riporta quasi tutte le opere realizzate con il granito della cava. Sono, per la maggior parte, grandi impianti (quali bacini, banchine, ponti, gallerie), o pavimentazioni di strade, ai quali si affiancano, a partire dal 1907, anche composizioni scultoree celebrative. Credo, però, che non sia inutile ricordare qualche curiosità relativa ai monumenti citati dalla stessa SEGIS o ad altri da questa ignorati nonché all’opera più celebre realizzata a Santo Stefano, quella in onore di Costanzo Ciano.
Prima del 1907 il granito di Cala Francese era stato richiesto per alcuni monumenti funebri realizzati a Sassari da uno scultore di rilievo che meriterebbe maggiore attenzione, Andrea Usai. Personaggio conosciuto e stimato in Sardegna nei primi decenni del secolo, si era reso indipendente dalla preponderante lezione del piemontese Giuseppe Sartorio, onnipresente in quegli anni, aprendo due studi di scultura a Sassari a partire dal 1903.102 Aveva mostrato la sua originalità anche nell’abbandono momentaneo del marmo al quale sostituiva, con felici intuizioni, il granito. E proprio con questa pietra realizzava la sua opera più celebre, il monumento funebre Ardisson in cui un’alta piramide di granito ornata da motivi di ispirazione egizia, vede svolgersi i gruppi scultorei in bronzo: da un lato la complessa allegoria della morte, dall’altro un realistico rilievo che ricorda i meriti della defunta.
I rapporti di Usai con la cava di Cala Francese durarono almeno tre anni: non fu un cliente tranquillo in quanto ordinava pezzi che poi non voleva accettare, polemizzava per i prezzi richiesti e cercava di risparmiare magari tentando malamente di organizzare il trasporto con un veliero di sua fiducia, mostrava incertezze, difficoltà economiche che spesso lo spinsero a chiedere dilazioni; situazione accreditata da una astiosa lettera anonima nella quale lo si accusava di “essere fallito e di cercare di avere il granito per pagare un altro debito”.
Nel 1907 il Comitato per i festeggiamenti in onore di Garibaldi nell’occasione del centenario della nascita, deliberava di erigere, alla Maddalena, una “colonna commemorativa” su progetto dell’architetto Valfredo Vizzotto.
Il presidente Cino Canzio si diede un gran da fare ottenendo, fra l’altro, il più consistente contributo, cioè la fornitura gratuita del granito da parte della SEGIS alla quale si sarebbe pagata solo la lavorazione dei pezzi per un totale di 3000 lire. Approfittando della favorevole situazione determinata dall’entusiasmo con cui si metteva mano all’opera, Canzio chiese ed ottenne alla direzione della cava, di volta in volta, materiale a credito quale pozzolana, dinamite, attrezzi e, infine, anche gli uomini per l’imbarco dei conci lavorati sul pontone messo a disposizione dalla Marina Militare.
I suoi numerosi biglietti, spicci e cortesi, si rincorsero per tre mesi: in uno di questi comunicava a Grondona la notizia, del tutto segreta, che il Re, al quale era stato chiesto un contributo in denaro, aveva inviato un “delegato di P.S. [con] l’incarico di informare esattamente il Ministero dell’Interno di quello che fa questo comitato e del valore vero che si può calcolare per l’erezione del nostro monumento”. Poiché ci si aspettava che il delegato conferisse con Grondona, Canzio suggeriva a quest’ultimo di indicare in lire 10.000 il costo del monumento in fase di esecuzione.
A tanta sollecitudine nel chiedere non ne corrispondeva, però, altrettanta nel pagare. Grondona doveva aver avuto sentore dell’intenzione del comitato “di ingannarlo”, perciò richiese il dovuto in un incontro che scivolò presto su toni da “piazzata”, secondo la definizione di Canzio: questi, sdegnato dal fatto che si fosse messa in dubbio la solvibilità sua e degli altri componenti il comitato, scriveva a Grondona manifestando la sua amarezza e il suo “disgusto”, e proponendo un piano per il pagamento dei debiti con termine ultimo fissato al 4 luglio. Ancora il 2 luglio richiedeva materiale aggiungendo: “per la questione della moneta venga appena può in Maddalena e sarà regolata ogni cosa”.
I rapporti continuarono ad essere freddi, ma la colonna fu completata con soddisfazione di tutti. Solo rimasero 3.806 lire di debito e, di queste, a dimostrazione che Grondona aveva avuto regione, ben 1.388 dovutegli per la lavorazione della colonna e anche 68 per la fornitura di pozzolana.
Uno strascico poco piacevole fu rappresentato dal licenziamento del fabbro Moi che lavorava alle dipendenze della SEGIS: essendo membro della banda municipale aveva preso parte ai pellegrinaggi e alla cerimonia di inaugurazione della colonna assentandosi così dal lavoro per tre giorni.
Il capomastro Sabatini lo aveva cacciato e il povero Moi si era rivolto al sindaco che scrisse direttamente a Grondona giustificando l’assenza e pregandolo di riassumere Moi, “tanto più che è ottimo giovine sotto ogni rapporto”.
Sappiamo poco del monumento a don Guzmao eretto a Santos, in Brasile e inaugurato il 7 settembre 1922. Era il primo sostanzioso impegno nel campo delle opere artistiche realizzato col granito di cava e destinato all’estero: la SEGIS ne fu molto fiera, considerandolo “una vera opera d’arte, come si potè anche constatare dalla riproduzione effettuata dal Secolo XIX di Genova”.
L’opera più impegnativa, vero orgoglio della SEGIS per i riscontri positivi in campo internazionale fu il monumento di Ismailia. Fu ammirato per la potenza della rappresentazione (molto retorica!) della “force mise au service de la civilisation” con la quale Francia e Inghilterra avevano ben chiarito i rapporti di forza nel Mediterraneo orientale alla fine della prima guerra mondiale. Prendo la descrizione da un curioso libro, stampato in soli 30 esemplari, posseduto dalla famiglia Grondona: “Deux figures ailées (8 m.) se dressent à la base des pilons (70 m), telles des figures de proue, symboles des deux forces victorieuses qui sauvèrent le canal. L’une sereine, porteuse du flambeau, le regard fixé sur l’avenir, est l’intelligence, la civilisation; l’autre sévère, représente la volonté de vaincre et la Ténacité. L’oeuvre de MM Delamarre et Roux-Spitz est ainsi l’expression des puissantes énergies qui ont permis de réaliser le canal”.
I due grandi piloni che fanno da sfondo alle due figure femminili, sono appoggiati su tre basi sovrapposte su un piano lungo 240 metri e si innalzano ben visibili a chi attraversa il canale.
Per realizzare l’opera si dovette costruire nella cava un grande hangar (chiamato l’hangar delle statue) “con paranco a carrello su castello mobile della portata di tonnellate 10”, dove gruppi di scalpellini abili (pagati a giornata con la tariffa massima) lavoravano sotto le indicazioni di tre scultori, Guerin, Santelli e Cardinale, che intervenivano anche direttamente, con qualche colpo di scalpello, a precisare i contorni delle enormi figure.
La consegna dei conci per le basi e i piloni fu effettuata nel primo trimestre del 1928; nei mesi immediatamente successivi furono consegnati i pezzi che componevano le statue: i maddalenini avevano seguito con interesse e curiosità quello strano lavoro ammirando la trasformazione del granito che andava prendendo forma vagamente umana. Quando i pezzi che costituivano le figure furono assemblati, a secco, in modo da verificare che non vi fossero difetti soprattutto nei punti di aderenza, molte comitive andarono a vedere facendosi fotografare vicino a quella meraviglia; fra gli scalpellini che lavorarono ai pezzi vi furono Pietrino Marci, Vincenzo Piu, Salvatoriccu Pisanu.
Il plastico del monumento fu presentato con successo al Salone d’autunno di Parigi nel 1927 e alla Fiera di Milano nel 1928.
La tomba della famiglia Manini-Grondona non poteva che essere in granito: lo stile eclettico che richiama vagamente opere orientali, è forse un po’ attardato rispetto ai tempi i cui la tomba fu realizzata; anche il contesto del cimitero isolano risulta staccato da questo monumento che però rivela nell’impianto solido e accurato, nelle decorazioni della parte alta e anche nel contrasto fra il colore grigio del granito e il rosa del marmo interno, una grande accuratezza di visione e di esecuzione.
A Santo Stefano fu realizzata un’opera impegnativa, progettata dall’architetto Arturo Dazzi in memoria di Costanzo Ciano, che deve essere ricordata insieme a quelle migliori di Cala Francese quali il monumento a Ismailia: quest’ultimo per il suo carattere simbolico, l’impegno di artisti stranieri, le dimensioni, il luogo stesso in cui fu collocato, ottenne apprezzamenti internazionali notevoli e contribuì non poco alla fama del granito di Cala Francese; quello a Ciano ebbe il destino delle opere non finite e giace abbandonato nella vecchia cava di Villamarina.
Credo che le due opere siano accomunate dalla retorica e dalla ricerca di un effetto scenografico: la prima doveva ricordare a chi attraversava il canale di Suez l’epopea della sua costruzione, testimone non solo della volontà di alcune nazioni di rendere libero il traffico marittimo, ma anche dei rapporti che le potenze coloniali intendevano mantenere in quell’area; la seconda doveva celebrare un personaggio rappresentativo del fascismo, morto improvvisamente nel 1939, facendo leva sulle qualità a tutti note di un uomo di mare, di eroe delle prima guerra mondiale, protagonista di imprese temerarie contro le navi della flotta austriaca. Dazzi scelse un’immagine austera e di immediata comprensione: un uomo, vestito con abiti da marinaio, alto su una imbarcazione dalla quale guarda lontano; il monumento avrebbe dovuto essere sistemato nel porto di Livorno ben visibile a chi si accostava a terra.
La guerra interruppe i lavori già quasi ultimati: a Santo Stefano rimangono i pezzi del corpo e la testa, isolata nel piazzale della cava, che mantiene intatto tutto il suo fascino.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
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