La Corsica e l’imigrazione sarda
Le numerosissime peripezie politiche e militari degli anni 1793-1814 trascinarono la Corsica in un vero e proprio vortice di sovranità.
Infatti, l’instaurazione della seconda indipendenza (1793-1794) sfociò nella creazione del regno anglo-corso (1794-1796) prima che i francesi facessero la loro riapparizione (1796-1814); per tanto, quest’ultima dominazione fu intervallata da un tentativo russo (1799-1801), da varie rivolte popolari e da un fugace ritorno della presenza britannica (aprile-giugno 1814).
Nel 1815, la caduta definitiva del primo impero sfociò nell’integrazione politica che si voleva ormai irreversibile, dalla Corsica alla Francia, in mancanza in particolare di progetti concorrenti; da sola, un tempo, la tentazione di alcuni corsi di iscriversi dentro il risorgimento doveva apportare una parvenza di perturbazione a questo schema di integrazione, subìto in un primo tempo, accettato e cercato in seguito.
Questi anni tumultuosi furono propizi a movimenti migratori molto brevi e di origine politica; tra il 1790 e il 1793, patrioti italiani favorevoli alle nuove idee furono accolti nell’isola come Filippo Buonarotti, peraltro redattore del giornale Patriotico di Corsica; tra il 1794 e il 1796, dei reali francesi poterono contare sulla benevolenza delle autorità del regno anglo-corso. Dopo il 1796, invece, furono dei rivoluzionari sardi, come Gio Maria Angioy, a trovare un rifugio sicuro nell’isola.
Tra il 1801 e il 1804, sotto il Consolato (il periodo prenapoleonico) e l’Impero, quasi tutti i 700 maltesi, sostenitori dei francesi e rifugiati a Marsiglia e Tolone, furono inviati in Corsica per servire come coloni agricoli. Ma, insediati in città, soprattutto ad Ajaccio, Bastia, Bonifacio e Porto Vecchio, vissero in condizioni difficili, non trovando da lavorare e dovendo vivere della magra somma che il governo francese versava loro.
Una parte di loro, tuttavia, tentò di sviluppare la coltivazione del cotone in Corsica, a quanto pare, senza successo. Nell’isola un certo numero di persone si stabilì senza poterne raccontare di più. Questa immigrazione, ad eccezione di quella maltese, era stata quasi esclusivamente individuale, qualunque fossero i periodi e le opzioni politiche di questi rifugiati, cosicché, in seguito, nessuno di loro finiva per rimanere in Corsica.
Infine, occorre ricordare che l’isola fu anche terra di confino, in particolare sotto il primo Impero, per sacerdoti cattolici romani, forzati napoletani o patrioti di Santo Domingo e della Guadalupa (Antille). Tra il 1804 e il 1806 questi ultimi furono impiegati nella costruzione del Lazaret d’Ajaccio. Nessuno sembra essere rimasto in Corsica dopo la caduta dell’Impero, lo stesso fu evidentemente per i soldati croati stanziati a Bastia fino al 1814.
Superate le turbolenze delle guerre rivoluzionarie e imperiali, la Corsica continuò a inserirsi nei flussi migratori precedenti che, pur contrastati dalle vicissitudini della storia, restavano largamente legate allo spazio italiano. Se i territori più vicini – Toscana e Sardegna – fornivano sempre i loro contingenti di migranti stagionali in occasione delle grandi attività agricole, in particolare nel Sartenais (nel sud-ovest della Corsica) e partecipavano anche ad una immigrazione definitiva con la presenza di artigiani stabiliti in città come in campagna; in quest’ultimo caso le loro attività si esercitavano essenzialmente nel settore dell’edilizia.
A questi si aggiungevano pastori sardi, ma anche carbonai e taglialegna. Quest’ultimi, originari di Lucca, erano assegnati a lavori particolarmente gravosi nella foresta di Vizzavona (nella provincia dell’Alta Corsica) o nell’Alta Rocca (levita). Ancora largamente stagionali, questi lavoratori erano notevolmente organizzati, come i carboniferi lucchesi raggruppati in «brigate» e diretti da un «caporale». Il Mezzogiorno italiano fornisce anch’esso il suo contingente di migranti a partire dagli anni 1840 con la presenza permanente, in particolare a Bonifacio e ad Ajaccio, di numerose famiglie di pescatori napoletani. Non senza atti di violenza con pescatori locali.
I napoletani portarono da una parte nuove tecniche di pesca e unparticolare vocabolario , e, dall’altra, nuove forme di religiosità nonostante l’introduzione di nomi di battesimo in relazione ai santi napoletani, in particolare quello di Gennaro, successivamente franceseificato a Janvier, linguisticamente, si sono assimilati alle popolazioni locali – come gli altri italiani – adottando la lingua corsa o, nel caso di Bonifacio, l’origine ligure.
Questa immigrazione peninsulare costituiva la quasi totalità della popolazione straniera dell’isola poiché, nel censimento del 1851, i cittadini italiani erano 3.800 per una popolazione straniera totale di 4.245 persone, pari a circa l’1,6% della popolazione corsa. Detto questo, la presenza italiana non fu solo legata alle attività economiche.
La Corsica servì anche da rifugio a molti italiani in delicatezza con le autorità politiche dei loro paesi nel periodo precedente la prima guerra d’indipendenza (1848-1849). È stato il caso, in particolare, dei patrioti (fuorusciti) che fuggivano dalla repressione austriaca durante le prime lotte per l’emancipazione e l’unità di ciò che era ancora una semplice «espressione geografica» per usare le parole del cancelliere austriaco Metternich (1773-1859).
Tra gli anni 1820 e 1848, diverse centinaia dei fuorusciti si trovarono nell’isola, come lo scrittore fiorentino Francesco Domenico Guerrazzi, il napoletano Giovanni La Cecilia o ancora il genovese Giuseppe Mazzini per attenersi ai più celebri. Se alcuni di loro scegliessero definitivamente la Corsica, la stragrande maggioranza tornò in Italia non appena furono fatti i primi tentativi di condurre l’Italia all’unità, dopo il 1861 e l’istituzione del Regno d’Italia, questa immigrazione scomparve di fatto.
Questa presenza di alti politici ebbe, tra le altre conseguenze, quella di iscrivere mentalmente la Corsica nello spazio nazionale italiano per un certo periodo di tempo. In effetti, alla luce dell’ambiente culturale insulare, questi fuorusciti non si consideravano affatto in terre straniere, anzi, ritenevano, come alcuni corsi – che l’isola dovesse fare ritorno alla “madre patria”. Di conseguenza, pur essendo giuridicamente stranieri, essi non si stimavano e non erano percepiti come tali, tranne che dall’amministrazione francese.
Il paradosso del periodo volle, infatti, che le uniche persone che si considerarono immigrati e si sentirono all’estero furono i funzionari arrivati dal Continente, tanto più che le lingue dell’isola (corso e italiano) rimasero del tutto a loro estranee. Nel 1815, Vérard, ispettore all’Ospedale Militare di Ajaccio, poteva scrivere della battaglia di Ponte Novu, “che questa faccenda, così mortale per loro (i corsi), ci costò solo cinquanta soldati e tre ufficiali.”
A questo proposito, l’atteggiamento di questi funzionari e amministratori ricordò quello di Racine a Uzes, un secolo e mezzo prima (1662), o quello di Merimee ad Avignone nel 1836; entrambi dichiararono di sentirsi all’estero. Questa distensione nei confronti degli isolani da parte dei continenti, non esente da un certo sentimento di superiorità, in seguito svanì fortemente senza mai scomparire fino al punto di continuare fino ad oggi.
I corsi, da parte loro, ebbero a lungo la sensazione che questi francesi del Continente non fossero loro connazionali, nel 1849 fu alle grida di Morte ai francesi! che gli ajaccini diedero la caccia a soldati della guarnigione che si erano bagnati nudi davanti a donne e bambini.
Mezzo secolo dopo ancora, ad Ajaccio nel marzo 1910, durante le esercitazioni di un battaglione di fanteria, gli insulti che un ufficiale rivolge nei confronti dei corsi presenti attorno al campo di manovra, hanno generato uno scambio di spari tra l’ufficiale e le persone che hanno fatto due feriti. L’incidente è avvenuto a seguito di una serie di scontri tra la popolazione insulare e i funzionari continentali, che non hanno tuttavia rimesso in discussione la presenza francese.
Parzialmente tratto da Corsica Oggi