Co.Ri.S.MaIl popolamento dell'Arcipelago maddalenino prima dei Savoia (1650-1767)La Maddalena Antica

Le produzioni

L’allevamento

Dai documenti sappiamo che in questo periodo la principale attività produttiva degli abitatori delle isole era l’allevamento brado. Sappiamo anche che queste isole videro arrivare agli inizi degli anni ’80 del XVII secolo i pastori di Levie e di Quenza con le bestie affidate loro dalla famiglia Doria. Iniziò Angelo Doria, della nobile casata genovese, che, inviato in Corsica a svolgere funzioni istituzionali, si stabilì a Bonifacio dove fu Commissario, intraprese attività commerciale e anche di allevamento. Il comandante Della Chiusa nel 1736 confermò che: “si è inteso appartenere li predetti bestiami alli fratelli Doria mercanti in Bonifacio, cedendo alli medesimi custodi la metà del frutto che si ricava da bestiami”. La formula iniziale, quindi, che regolò i rapporti tra “principali” bonifacini e i loro pastori nelle isole, fu quella del contratto a “soccida” o a “capucho”, lo stesso utilizzato in Gallura. Il pastore senza bestie proprie ne riceveva un certo numero dal proprietario, che gli cedeva il 50% dell’incremento, mantenendo la proprietà del bestiame-capitale iniziale. A conclusione del contratto, cioè, il proprietario ritirava il bestiame affidato, o il suo equivalente, e la metà dell’incremento dovuto alle nascite nel frattempo avvenute.

Rivarola oltre 30 anni dopo registrò, però, un’importante evoluzione della situazione. Nella sua relazione, infatti, rilevò che: “questi pastori conducendovi le loro famiglie, e crescendo a poco a poco e crescendo i bestiami passarono anche nella Cabrera, che sono le due isole più grosse, epperciò meno esposte ai turchi che vi approdavano. Cresciute dunque le famiglie dei pastori……. han cominciato a rendere alla casa Doria il suo bestiame e mantenere del proprio; onde al dì d’oggi i figliuoli del suddetto fu signor Angelo Doria (Domenico e Angelo), già vecchi e capi di numerose famiglie non hanno che una tenue porzione di bestiame in cura da ognuno di essi pastori, i quali la tengono puramente per godere della protezione di essi signori Doria. Dopo quasi un secolo dall’avvio dello sfruttamento delle isole, l’emancipazione dai vincoli vessatori del “capucho” era un fatto quasi compiuto, anche se gli interessati continuarono surrettiziamente a lamentarsene come ancora esistenti. Quando infatti Brondel propose per la prima volta ai pastori isolani, nel marzo 1767, la convenienza a mettersi sotto il dominio sardo, questi esagerando contrapposero la seguente riserva: “noi possediamo effetti in Bonifacio e li bestiami che abbiamo sono de’ mercanti atteso che li medesimi ci hanno fatto il capitale, e se noi ci ricoveriamo sotto la protezione di S. M. il re di Sardegna potrebbero li suddetti sequestrarci li nostri effetti che possediamo in Bonifacio”. Di fatto era poco probabile che essi avessero a Bonifacio degli effetti di valore irrinunciabile, e per quel che riguarda i bestiami non era credibile che fossero ancora tutti dei mercanti bonifacini. La stessa relazione di Brondel, appunto, nel prosieguo riferiva: “ma ogni qual volta che la M. S. si degnasse di mandare un piccolo distaccamento di soldati per prendere possesso, noi altri non avressimo veruna difficoltà di sottometterci alla sua obbedienza”.

Solo il commendator Della Chiusa ha riferito della qualità e quantità del bestiame, per cui non abbiamo dati relativi allo sviluppo della pratica dell’allevamento nelle isole in questo periodo. In occasione della sua visita registrò 1500/1600 capi di animali di piccola taglia tra montoni, capre pecore e vitelli, e 60 capi bovini adulti. I relatori successivi si limitarono ad informazioni minime. Rivarola scrisse che i capretti divezzati, per essere tenuti lontani dalle madri, venivano portati a S. Maria e lì lasciati opportunamente contrassegnati per il riconoscimento. Raccontò, inoltre, che venivano segnati tutti gli animali delle isole che rimanevano incustoditi nei mesi estivi di rientro in Corsica dei pastori, e che a Caprera erano più numerose le pecore, mentre a Maddalena lo erano le capre. Brondel scrisse, invece, dei danni all’allevamento che venivano apportati dalla ferula presente sia a Maddalena che a Caprera, e riferì che i pastori isolani sopperivano al periodo della sua nocività fornendo al bestiame foraggio portato da Bonifacio o dalla Gallura. Della Chiusa, ancora, riferiva dei latticini prodotti nelle isole, che quantificava, nel 1736, a circa 100 “cantara” [1 cantaro di 100 libbre = kg. 40.65] di formaggio, che, oltre la quantità di autoconsumo, veniva venduto a Bonifacio ma anche ai bastimenti di passaggio.

L’agricoltura

Le caratteristiche del terreno delle isole non era certamente favorevole all’uso agricolo. Brondel evidenziava che Maddalena era poco più fertile di Caprera e che entrambe non avevano boschi (prive di boscame). A suo giudizio le altre isole non erano per niente fertili, ma pure sappiamo che si raccoglievano piccole quantità di biade e grano anche a Spargi e S. Stefano. Sui cereali non abbiamo alcuna informazione di quantità. L’unica e indiretta indicazione ci viene da Della Chiusa, che scrisse che i 14 bonifacini che lasciavano le capre a Spargi vi seminavano 130-140 copi ovvero cuppe, una misura per granaglie non a peso ma a contenitore [1 cuppa = l. 24,6]. Rivarola senz’altro esagerava quando, evidenziando l’emancipazione dei pastori dai proprietari bonifacini, scrisse anche che le famiglie isolane si sarebbero fatte: “ricche col grano che principiarono a seminare”. Più realista era stato invece Della Chiusa relazionando che: “la loro sussistenza si è del pocco formento di cattiva qualità che raccolgono in dette isole, e dei latticini che producono i loro bestiami”. Anche Brondel avvertiva: “che li terreni tanto di questa come delle altre [isole] sono sabbionicci, e che il solo grano di Corsica, come dalli suddetti abitanti ci fu riferito, produce ne’ medesimi”. La qualità non era di certo buona, giacché si doveva trattare del grano tenero di Corsica (il cosiddetto tricu cossu). Quando andava bene il raccolto permetteva la provvista familiare e l’accantonamento della quantità utile per la semina. Provvista e riserva venivano conservate con particolare accuratezza in occasione dell’assenza dalle isole nei due mesi estivi, giacché bisognava preservarle dalla voracità dei topi che erano particolarmente numerosi, come a loro spese seppero in seguito anche i soldati occupanti. I pastori maddalenini lo accumulavano in tafoni cavi, procedendo con molta cura a sigillarli ermeticamente. Il poco grano ritenuto eccedente era stivato nel bastimento che da Bonifacio veniva alle isole agli inizi dell’estate, per imbarcare i pastori, le famiglie e le loro mercanzie per le “ferie” negli alberghi della piaghja corsa.

Il mare

I pastori isolani erano rappresentati da Brondel in termini problematici: “circa alli abbitatori di dette isole- scriveva nella relazione del giugno 1767 – sono di bella statura e buoni per le armi, ma volubili di sentimento, e questo per non avere veruna amministrazione né di Chiesa né di Giustizia”. In quella dell’agosto successivo metteva in evidenza, invece, il fatto della salute fisica: ”non trovandosi tra centoquindici anime abitanti nella medesima verun ammalato”. In precedenza, in occasione del primo incontro del febbraio/marzo, aveva relazionato che sul suo pinco si erano presentanti 40 uomini armati a chiedere di parlargli. Il bozzetto sulle qualità riconosciute agli isolani si può completare con l’ammonimento che il viceré rivolgeva al comandante della spedizione di occupazione. Il viceré Des Hayes, infatti, diceva al maggiore La Rocchetta che quei pastori, a detta degli ufficiali che avevano visitato quei luoghi e conosciuti gli abitanti, erano “assai risoluti e capaci a mischiarsi temerariamente a qualunque attentato”.

Questi isolani non rispondevano affatto alla rappresentazione del pastore bucolico. Erano intraprendenti anche oltre l’attività di allevamento. Erano diventati pure marinai. Loro che da generazioni avevano transumato tra piaghja e muntagna della Corsica sottana, insediatisi nelle isole si ingegnarono nella conduzione delle barche, divenendo abilissimi nella navigazione nei Carruggi e nelle Bocche. “Hanno delle piccole barchette – scriveva Rivarola – delle quali si servono per passare da isola in isola, e per andare in Bonifacio, benché per questo più lungo viaggio sogliono far venire da quel presidio bastimenti più grossi”. Vedremo che con le stesse barche (probabilmente delle gondole, ma niente di simile a quelle veneziane!) i pastori isolani si misero al servizio del comando delle truppe occupanti, per i lavori di trasporto di materiali e persone da e per la Gallura nei giorni successivi allo sbarco della spedizione, e dal comandante La Rocchetta abbiamo saputo che le imbarcazioni erano tenute “in comune” dai pastori isolani. Nonostante che i nostri pastori avessero acquisito abilità marinare, non risulta da nessun documento che praticassero qualche forma di pesca più o meno professionale. Che la pesca non fosse un’attività praticata neppure negli anni successivi, lo si ricava dal tentativo che nel 1794 fece il comandante dell’armamento marittimo, De Chevillard, di far addestrare alla pesca dei giovani maddalenini da parte di alcuni marinai napoletani esperti. E’ certo anche che, seppur disponessero del mare più ricco di corallo e intrattenessero rapporti con i corallari, non divennero mai pescatori di quei preziosi polipi.

Con le loro barche, inoltre, intervenivano a raccogliere in mare i relitti, al punto che sempre il Rivarola relazionava che il loro nuovo benessere lo dovevano anche al recupero di “getti e naufragi”. Era evidentemente una integrazione preziosa al magro reddito della pastorizia, tanto più quando, più che di relitti, si trattava di vere e proprie grassazioni, come pretendeva il patrone provenzale Giacomo Gioja. Questi, nel gennaio del 1731, denunciò al tribunale di Bonifacio 15 pastori maddalenini per aver depredato la merce della sua polacca naufragata nelle acque di S. Stefano il 24 dicembre del 1730, reclamandone la restituzione. Secondo il suo esposto, la mercanzia era stata salvata dal naufragio dai suoi 13 marinai, che imbarcatola in una scialuppa la trasportarono a terra nell’isolotto di S. Stefano. Ricoverata in una baracca costruita alla bisogna e custodita dagli stessi, non poteva considerarsi res nullius, per cui quella dei maddalenini doveva ritenersi una vera e propria rapina a mano armata. Più fortunata fu l’occasione, nel 1744, in cui gli isolani riuscirono a catturare una ventina di corsari tunisini che la Serenissima ridusse in schiavitù. Conosciamo la circostanza grazie al fatto che ne nacque una questione di competenza territoriale sulla preda, giacché il governo sardo li pretendeva, ritenendo che fossero stati catturati nel litorale gallurese. Le cronache di parte bonifacina riferiscono che una volta acclarato che la cattura era avvenuta nell’isola maddalenina il viceré sardo avrebbe rinunciato alla pretesa. Non conosciamo la dinamica dei fatti, ma è da ritenere che il gruppo avesse lasciato il bordo per tentare una scorreria nell’isola. I maddalenini avvistata la manovra, non si fecero sorprendere e furono essi i predatori, ricavando una bella somma, poiché lo schiavo, nelle quote di ripartizione dei premi di preda, aveva un alto valore. Ma non sempre andò bene, e sappiamo che nel 1765 toccò a tre maddalenini essere sorpresi e catturati dai barbareschi a S. Stefano. A completamento di quanto è già stato detto su questo episodio, parlando di Maria Noncia Ornano, si può anticipare che ancora nell’agosto del 1769 il viceré assicurava che si stava trattando col Bey di Tunisi lo scambio di Gio’ Marco Ornano con qualche “maomettano” prigioniero-schiavo in Sardegna.

Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma