Le specializzazioni del lavoro, scalpellini, fatturanti e modellatori
(Pagati a cottimo) Il loro lavoro serviva a preparare soprattutto i tacchi per pavimentazione stradale, che però non richiedevano la specializzazione, e quindi la bravura, necessarie a chi doveva fare pezzi speciali: banchinamenti (bagnasciuga, bozze, bolognini, coronamenti, bitte, nicchie), mole per macine di diverse dimensioni (fino a tre metri di diametro), vasche per usi industriali (molto bella quella monolitica realizzata per la Nasturzio di Genova di m 2,50×1,80×1,50), pezzi per bacini di carenaggio, piloni di ponti, stipiti ornamentali, architravi, scale con gradini semplici o doppi (capiscala), bordure di marciapiede, portali con spigoli arrotondati, mensole di poggiolo, capitelli, lesene, colonne, monumenti. Fra gli scalpellini i primi da ricordare perché sono ormai nella leggenda sono due personaggi particolari: Merlo e Tugnì. Entrambi veri artisti, abilissimi nella loro professione tanto da essere considerati i migliori, con esperienze molteplici alle spalle, restavano alla Maddalena nella stagione invernale e, in estate, si spostavano in luoghi più vicini alla residenza delle loro famiglie (Genova per il primo e Milano per il secondo).
Carlo Merlo lavorò alla colonna Garibaldi, al Monumento di Santos, alla tomba Manini-Grondona. Realizzò alcuni lavori finissimi come cornici per ritratti e un piccolo calamaio decorato: si racconta di lui che, trasferitosi in Corsica nei primi anni venti, fece una croce scavata all’interno con doppio bordo che nessun altro sarebbe riuscito a fare, tanto che costituiva una sorta di sfida per chi si riteneva molto abile. Molti si cimentarono inutilmente finchè uno scalpellino, dopo sette tentativi infruttuosi, riuscì finalmente ad imitarla: allora, soddisfatto dell’opera sua, dopo averla mostrata agli amici, la distrusse con un colpo di mazza per dimostrare che non gli interessava l’oggetto quanto la soddisfazione di averlo realizzato imitando un maestro come Merlo.
Antonio Margutti, detto Tugnì, ha lavorato, tra l’altro, al monumento di Santos e alla tomba Manini-Grondona. Subito dopo il suo arrivo alla Maddalena sembrava così inesperto e poco volenteroso che i compagni, scherzando, proponevano di fare una colletta per rimpatriarlo col vapore quindicinale. Ma quando, poiché trascurava il lavoro che gli era stato affidato (una banchina), fu ripreso da Grondona, prese una scaglia di granito, realizzò in breve tempo una cornice, la portò al padrone dicendogli che poteva mettervi la sua foto perché non lo avrebbe rivisto più: voleva essere pagato e andarsene. Logicamente quella cornice fu il suo migliore biglietto da visita che gli garantì la stima e l’ammirazione generale, nonchè lavori più impegnativi come i monumenti citati.
Dopo l’orario di lavoro sbrigliava la sua fantasia su oggetti fini che creava stando seduto sulla branda con un fiasco di vino accanto: come omaggio per la maestra milanese di sua figlia, scolpì un libretto da messa decorato con una piccola rosa sulla copertina; e, in seguito, un quadro rappresentante Garibaldi sullo sfondo del mare sul quale un veliero spiegava le sue vele. A Grondona che gli illustrava i particolari della tomba di famiglia sulla quale doveva scolpire il muso di due leoni con degli anelli decorativi, chiese se doveva realizzare gli anelli senza appoggi, liberi cioè di girare nel loro alloggio, perché si riteneva in grado di farli.
Trasferitosi a Milano, lavorò in proprio al frontale della stazione ferroviaria e ad alcuni monumenti su uno dei quali scolpì un’aquila che si reggeva su una zampa sola.
Fra gli incidenti dei quali rimasero vittime molti scalpellini, il più antico del quale si abbia notizia è quello occorso nel 1889: Giuseppe Facchini morì “in seguito a accidentale schiacciamento”. Fra quelli che rimangono ancora nella memoria collettiva, quello occorso a Paolo Moi Purisgì, che perse entrambe le gambe schiacciate da un masso e quello più anomalo per le cause e per le conseguenze, occorso a Lorenzo Crescioli, uno dei più vecchi scalpellini di cava, nato a Fiesole nel 1858 e arrivato alla Maddalena nel 1901 con una sua compagnia.
Malgrado l’età e la notevole mole, era abile ed esperto, aperto con i più giovani, sempre pronto a una battuta in un colorito linguaggio nel quale spiccavano le bestemmie.
Il 10 novembre 1928, verso le nove, stava andando alla forgia a lasciare i ferri consumati e ritirare quelli temperati, passando lungo il binario (cosa che era espressamente vietata, ma ignorata da chi voleva rapidamente raggiungere la forgia). Si trovava nel punto in cui la linea ferroviaria costeggiava il muro della tettoia lungo la banchina quando sopraggiunse il treno; non aveva via di scampo perché lo spazio era troppo stretto: fu urtato e schiacciato contro il muro riportando delle lesioni interne gravissime. Soccorso subito, fu adagiato su una scala a pioli e portato nel piazzale di fronte alla direzione, dove poco dopo, bestemmiando ed ”imprecando contro tutti i santi del cielo” morì. Portava cuciti nel gilè i soldi guadagnati negli ultimi 15 giorni.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
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