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Lui amava quest’isola

Sul granito a forma di vela che indica la sua tomba una frase di Paul Valery: “Si alza il vento, bisogna tentare di vivere”. Gian Maria Volonté ha vissuto controcorrente, sfidato il sistema come il mare al timone della sua barca. Riposa alla Maddalena, l’isola che tanto amava. Da vent’anni, da quella morte arrivata troppo presto. I film restano a preservarne la memoria di attore nella mente di tutti gli appassionati di cinema. I ricordi più intimi, quelli dell’uomo Volonté, appartengono a chi l’ha conosciuto, agli amici, ai familiari. La figlia Giovanna Gravina (il cognome è quello della mamma Carla) dedica al padre (lei lo chiama sempre Gian Maria) un festival che organizza con l’associazione Quasar: “La valigia dell’attore”. La decima edizione, che comincia oggi e andrà avanti sino a domenica, offrirà un forte tributo a Volonté .

Come aveva scoperto La Maddalena suo padre?

«Alla fine degli anni Sessanta, attratto dai racconti dell’amico Franco Solinas e dalla passione per la barca a vela. Da poco era stato aperto il centro velico di Caprera, arrivò come allievo e poi divenne istruttore».

Lei era una bambina. Qual è il suo primo ricordo?

«Il vento, una ponentata incredibile. Ricordo che mi aggrappai a un lampione di Cala Gavetta per non volare via. Era il 1969, avevo otto anni. Stavo da Giovannella Solinas, la moglie di Franco, essendo amica dei figli. Da lì in poi abbiamo continuato a frequentare costantemente l’arcipelago. La prima persona a comprare una casa qui fu però mia madre. Gian Maria invece prese prima una barca a vela che chiamò Arzachena».

Andavate in giro in barca?

«Sì, certo. Abbiamo fatto diversi viaggi e girato tutta la Sardegna. Per me è stata una grande lezione di vita. Ero disordinatissima, caotica e Gian Maria mi insegnò cosa significa il rigore di vivere in uno spazio ristrettissimo, il rapporto con la natura, con il mare. Sono stati momenti molto importanti e belli per me».

Che rapporto aveva con i maddalenini?

«Si trovava molto bene. Conosceva tutti. Apprezzava la discrezione delle persone. Dopo la barca a vela si fece costruire un gozzo. Spesso e volentieri si dedicava alla pesca, passione che mi ha trasmesso».

Prima ha parlato del rigore, necessario, che aveva in barca. Ma più in generale che padre era?

«Molto affettuoso. A volte, quando si preparava per un ruolo, diventava magari difficile. Per lui il lavoro era una cosa molto importante. Ha sempre pensato che il ruolo dell’attore fosse un ruolo sociale».

Come si comportava a casa quando si preparava a un nuovo personaggio?

«A volte c’erano atteggiamenti che non capivi. In realtà era già calato nel personaggio. C’erano momenti che ti chiedevi con chi stavi mangiando. Con Gian Maria o Aldo Moro? Anziché Lucky Luciano o Giordano Bruno. Utilizzava, nel senso buono del termine, anche i rapporti affettivi per creare delle dinamiche che gli servivano a raggiungere il suo scopo nel lavoro. A creare il personaggio».

La decisione della sepoltura alla Maddalena fu presa per soddisfare un suo desiderio?

«Il custode del cimitero ci raccontò, quando lui mori, a me e ad Angelica Ippolito, la sua ultima compagna, che Gian Maria aveva detto “voglio stare qua”. Gli abbiamo voluto credere, anche perché non ci sarebbe stato luogo più adatto della Maddalena».

E la frase di Paul Valery, “Le vent se leve il faut tenter de vivre”, come epitaffio?

«L’aveva incisa dentro la sua barca e allora abbiamo pensato fosse la dedica giusta».

La dedica si è poi allargata con il festival.

«Beh, diversi anni dopo che mi ero trasferita stabilmente qui».

A proposito perché decise di venire a vivere definitivamente alla Maddalena?

«La città non faceva per me. E avevo un bambino piccolo, di otto anni. Cercavo un posto dove potesse crescere e subito pensai alla Maddalena. Nemmeno un anno dopo la morte di Gian Maria venni qua, come prova. Ho lavorato prima in libreria, poi ho aperto un negozietto di rigatteria. In seguito, con un caro amico maddalenino, Fabio Canu, ci siamo detti: perché non riapriamo un cinema che non c’è più da alcuni anni? Siamo partiti con le arene estive e poco dopo fatto un accordo con la marina per utilizzare l’aula magna e iniziato, così, a fare anche la programmazione invernale».

E come siete arrivati poi a organizzare un festival?

«Alcuni spettatori hanno iniziato a chiederci i film di Gian Maria. Così, sfruttando i buoni rapporti con l’università di Roma, in particolare con Ferruccio Marotti che era stato amico di Gian Maria e aveva organizzato una retrospettiva nella Capitale, abbiamo pensato di replicarla qui».

Dopo è arrivato il progetto “Le isole del cinema”.

«Un bellissimo progetto secondo me. Quattro piccole isole che si consorziano per occuparsi ognuna di un diverso aspetto del cinema. Noi ovviamente quello dell’interpretazione. Purtroppo anche questo progetto non è stato molto sostenuto e sembra si stia perdendo».

È un periodo difficile.

«Sappiamo delle difficoltà per tutti in questo momento. Il problema di fondo, la cosa che vorrei sottolineare, è che c’è ormai un sistema perverso per il quale noi lavoriamo al buio. Sempre di più. Solo per alcuni anni abbiamo avuto una sicurezza in anticipo, quando abbiamo aderito a un progetto europeo. Così invece finisci per lavorare senza sapere quello che realmente puoi fare. Sarà difficile continuare».

Vuole dire che potrebbe essere l’ultima edizione?

«A parte il comune della Maddalena e il Parco che sostengono la manifestazione, ad oggi, quest’anno, siamo veramente al buio. La Regione e il Ministero dei Beni Culturali hanno dei tempi biblici. Il Ministero ha fatto il bando ma non ha costituito la commissione, l’assessorato regionale alla Cultura non lo ha nemmeno pubblicato, quello al Turismo sì ma non ha ancora assegnato i contributi. Inoltre siamo stati completamente tagliati dalla Fondazione Banco di Sardegna. È stato un brutto colpo, anche perché erano gli unici che ci davano sempre la risposta prima. E non capiamo perché ci abbiano cancellati, se hanno fatto nuovi criteri,

se non siamo stati chiari nella domanda o se non conoscono il nostro lavoro. Sarebbe un peccato non poter continuare. Oltre al festival vero e proprio abbiamo il laboratorio, un momento formativo importante capace di creare dei legami forti a favore di un luogo meraviglioso com’è l’arcipelago».