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Squarciò – Capitolo III

Squarciò, romanzo di Franco Solinas

Non è un mestiere giusto, ma è comunque un mestiere: e, a differenza di tutti gli altri, mostra subito a chi lo sceglie di quale tipo saranno i suoi rapporti e come può andare a finire. Non ci sono padroni, ma nemici.

Tutto ciò che può accadere è un rischio già previsto e accettato.

Squarciò aveva un nemico, la Finanza. E Squarciò era considerato un nemico dai pescatori con le reti. Per questo, doveva andare lontano, dove i finanzieri non potevano raggiungerlo e dove gli altri pescatori non arrivavano mai. Nessuno all’isola, neanche la Finanza, aveva allora una barca a motore.

Per due anni, Squarciò aveva mangiato solo pesce di scarto, di quello che non si può vendere perché maciullato dalle bombe. Comprò il motore d’un vecchio camion, e lo pagò a peso. Al principio non ne capiva nulla. Un mese intero con carta vetrata e petrolio per levargli la ruggine.

Poi aveva ascoltato tanti pareri, e la gente credeva che volesse cambiare mestiere perché passava tutte le ore libere nella bottega del fabbro. Ma Squarciò voleva dare un motore alla sua vecchia barca.

Quando si mise in moto la prima volta, fu come se lo avesse inventato lui. C’erano un barile di vino e un vecchio grammofono, all’inaugurazione. C’erano Zerro, Treddenti e Santamaria, altri bombardieri. Ma c’era anche Rosetta, che lo guardava felice, più felice di sempre, perché quel giorno Squarciò le avrebbe chiesto di sposarlo.

Il grammofono suonava Il Piave. Lo aveva deciso Santamaria, e non c’era stato niente da fare con lui che aveva fatta la guerra. Dai e dai, il disco ricominciava sempre da capo: perché il motore se ne stava zitto, insensibile, come se nelle braccia di Squarciò non ci fosse stata abbastanza forza per avviarlo.

– Porta scalogna! – gridava Squarciò. Ma per Santamaria era una cerimonia ufficiale perché quella era la prima barca dell’isola ad avere un motore.

Finalmente nacque quel suono meraviglioso, che non avrebbe mai più abbandonata la storia di Squarciò. Il motore prese a cantare, e la poppa si abbassava a pelo d’acqua.

Il mare schiumava rapido, sempre più rapido, per poi distendersi al ritmo giusto, senza scosse, domato da una miracolosa potenza.

Il disco continuava a suonare. Tutti bevevano il suo vino, e Squarciò si sentiva padrone di tutto, con Rosetta accanto, con tanto mare aperto sulla prua, e con quel suono meraviglioso che gli cantava il più felice avvenire.
Così aveva potuto sposarsi e avere figli e costruire una casa. Se ne andava a pescare lontano, un po’ per paura di Gaspare, e un po’ per non provocare gli altri pescatori che non potevano considerarlo uno di loro. Stava un giorno sul mare, e quando tornava rientravano anche le altre barche. Se Squarciò ne incrociava una, si offriva di rimorchiarla: ma non sempre quei pescatori accettavano.

Soltanto i suoi vecchi compagni di lavoro, quando lui era ragazzo e remava a giornata, accettavano la cima da Squarciò. E allora capitava anche che, con una scusa qualunque, Squarciò gettasse nella loro barca qualche bel pesce.

Perché la barca di Squarciò era sempre carica, quelle degli altri invece non pesavano molto di più di quando erano partite la mattina.

La prima volta che Squarciò rientrava all’isola con la sua barca a motore, Gaspare gli si presentò davanti sul molo.

– Fai un po’ vedere! – gli disse.
– Cosa? – chiese Squarciò, ma aveva già capito.
– Un pesce qualunque.
– Ma sarà uguale agli altri pesci, Gaspare… Gaspare spostò all’indietro il berretto spingendolo per la visiera.
– T’ho detto di non chiamarmi Gaspare!

– È un pesce come gli altri, sergente – disse Squarciò, raccogliendo dal fondo della barca un pesce microscopico e lanciandoglielo addosso. Gaspare fu costretto ad afferrarlo per non rimanerne colpito. Un pescetto da due centimetri capitato chissà come dentro la barca. Gaspare cominciò ad irritarsi. – Non fare dello spirito, Squarciò!

– Perché mi chiami Squarciò, sergente?
– Dammi quel dentice.
– Questo? È già venduto, ma se proprio lo vuoi… Per Gaspare, duecento lire.
– Ti ho detto…
– Va bene, allora trecento.

E Squarciò sorrise per lo scherzo, e gli porse il dentice di cinque chili. Con un temperino, Gaspare lo aprì sulla schiena. Lo guardò per un attimo, poi disse:

– Come l’hai pescato?
Squarciò non smetteva di sorridere. Altra gente si era fatta intorno, e tutti si divertivano. Gaspare non poteva far altro che rispettare il regolamento.
Squarciò rispose: – Con cosa vuoi che l’ho pescato?
Con l’amo d’oro…
– Con le bombe!
– Io?
– Ha la spina rotta.
– Avrà urtato in qualche posto. Forse era già morto, quando l’ho pescato. Mi meraviglio, sergente.

E Gaspare non avrebbe potuto provare il contrario.

Quando si allontanò, tutti scoppiarono a ridere. Squarciò rideva più degli altri. Intanto, alla sua, si erano affiancate altre barche, e tutte avevano sul fondo mucchi di reti ancora umide.

I pescatori si preparavano a sbarcare le cassette piene di pesci. Uno disse a Squarciò: – È facile sfottere, quando non ti possono fare niente.
Squarciò continuava a sorridere. – Perché non ti arruoli?
– gli chiese. – Arruolati, se sei più bravo di Gaspare, così avrò paura.

Quello continuava a passare le casse al suo compagno di barca. – Non scherzare con chi lavora – disse.
– Perché, io vivo di rendita?
– Quasi. Per te è come andare in banca a far saltare le casseforti.
– Soltanto che il mare è di tutti.
– Proprio così, Squarciò: il mare non è soltanto tuo.
– Davvero? Allora approfittane. Chi te lo impedisce?

Il pescatore non rispose. Pensava: «Perché non pesco con le bombe? Paura? Allora cosa?». Era giovane, e non trovava una risposta.

Il suo compagno intervenne per lui. – Se tutti pescassimo come te, – disse a Squarciò – fra un anno non ci sarebbe più pesce.
– Anch’io ci rimetterei, – disse Squarciò, – ma fatelo, se lo volete. È vostro diritto… Naturalmente, preferisco che continuiate con le reti!

Disse così, e, sempre sorridendo, saltò dalla barca sulla banchina. Là, fra gli altri, c’era un giovanotto in borghese, che teneva in mano una canna da pesca, un coppo e altri attrezzi tutti di lusso. Aveva ascoltato Squarciò, e ora rideva indirizzandogli occhiate di approvazione.
Squarciò lo sentì ridere. Lo squadrò bene, e non poté approvarlo.
– Tu perché ridi? – gli chiese.
– Così, – disse quello – sa, mi è piaciuto.
– Cosa?
– Quello che ha detto… – disse il giovane, ma cominciava ad aver paura, perché Squarciò gli si era fatto vicino, troppo vicino per pensare che volesse solo discorrere.
– Non c’era niente da ridere! – disse Squarciò.
– Ma io sono d’accordo con lei…
Squarciò lo strinse per la camicia, e lo allontanò con una spinta. – È impossibile – disse. – Pensaci bene, e in ogni caso io non sono d’accordo con te.
– La smetta! – gridò il giovane. – Io non capisco proprio… – Regolare: non capisci niente. Ora vattene che abbiamo da fare.

Il giovane se ne andò facendo finta di niente. Quando fu lontano, poté sfogarsi a immaginare un altro epilogo: con lui che riusciva a ribellarsi e a gettare in mare Squarciò.

Era arrivato il grossista. Andò subito da Squarciò perché era il suo migliore cliente. Aveva voglia il grossista a dirgli che con tutto quel pesce che pescava era un po’ un grossista anche lui: Squarciò voleva il prezzo degli altri, neanche una lira di meno. E prima di vendere, aspettava sempre che tutti avessero venduto, perché sapeva che il grossista avrebbe potuto rinunciare a qualsiasi altro pescatore, ma non a lui, che era il suo migliore cliente. Così nessuno ci rimetteva, e Squarciò prendeva i soldi per ultimo.