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Squarciò – Capitolo XIV

Squarciò, romanzo di Franco Solinas

Il sole è già alto e le nuvole si allargano intorno a lui quasi temano di dargli noia. Il granito brilla di tante luci accecanti, e il mare da grigio è divenuto bianco come di specchio.

Squarciò sente tutto quel sole, e quel riverbero negli occhi e sulle tempie. Ha caldo, ha sete, ma non può muoversi con le sue gambe maciullate. E intanto sente le vene del collo inturgidirsi e i polsi diventare grossi e pesanti.

Sente reagire a tanto caldo il suo corpo fino all’attaccatura delle cosce: più giù è come se non esistesse nient’altro.

In tanto silenzio, neanche i gabbiani gridano, nascosti all’ombra degli scogli. Squarciò sente benissimo il rumore del sangue nelle vene. Ne sente il tonfo sordo, continuo, regolare come lo stantuffo d’una macchina.
– È ancora sangue buono – dice. – Se no, dovrebbe rallentare o accelerare.

Dovrebbe succedere qualcosa se il sangue non fosse più buono.

E intanto sempre quel ritmo uguale. Un suono uguale a un altro che aveva sempre avuto nelle orecchie. – Un uomo è come un motore – dice Squarciò. – E se un motore ha il suono giusto, vuol dire che è ancora buono e può durare a lungo.

Il sole è a piombo, ma il caldo è diminuito. È nato il vento fresco dell’est, e la sabbia si solleva intorno a Squarciò turbinando, si impasta sulla sua faccia sudata, gli penetra fra le labbra, negli occhi.

I gabbiani volano ora gridando in cerchio sulle rocce.

I grandi gabbiani bianchi e i piccoli col grigio delle piume che va stingendosi. Un magrone passa rasente sulle onde, col collo teso e il frullo d’ali rapido e intenso. Lo incontra lo sguardo di Squarciò mentre percorre ansioso la linea dell’orizzonte, e lo segue fino a vederlo sparire. È aumentato il vento. Laggiù, una giornata come quella non poteva durare dall’alba al tramonto. Una grande calma nel cuore di Squarciò. Nessuno è contento di morire e neanche lui potrebbe esserlo.
– Tutto regolare – dice.

Quello che lascia basta per la vita di un uomo. Bastano gli anni che Rosetta ha vissuto felice. Basta Diana, che si sposerà e avrà dei figli, e saprà crescerli bene. Basta Bore, che si è dimostrato come nessun bambino dell’isola potrebbe. E Antonino, che riuscirà a farcela, e ricorderà finché è vecchio che lo deve al fratello. Angelo avrà dei fratelli grandi, che saranno uomini, e sarà per lui come se ci fosse ancora Squarciò.

C’è un altro figlio che deve nascere e che forse sarà un maschio, ma Squarciò non sa niente di lui.

C’è una casa sul molo, larga e quadrata, tutta fatta in granito. È esposta in modo che conosce ogni giorno il sole su tutte e quattro le facciate. È tanto solida che non può temere il corso degli anni, come non teme il ponente di gennaio, che fa tremare tutti i tetti dell’isola meno il suo.

Squarciò non ha più niente da pensare. Sa che è ormai inutile spingere gli occhi fino all’orizzonte, perché sa quante ore ci vogliono per raggiungere l’isola da quel posto e quante altre per ritornare.

Squarciò guarda il mare, e non sente dolore. Il mare, che adesso non è più calmo per pescare come pescava lui.

Eppure all’alba era così piatto, così trasparente. Ed è settembre, il tempo migliore per la pesca.