Un progetto perduto: l’Uomo di Punta e le sue tracce in Kapò e La vita è come un treno
Proprio in quegli anni di insuccessi, Solinas aveva conosciuto Pontecorvo e lo aveva presentato a Monicelli perché lo prendesse come aiuto regista. Tra il debutto di entrambi con Giovanna (1956) e il successivo La lunga strada azzurra (1957) si inserisce il tentativo di recupero di un progetto che Solinas aveva lasciato a metà, ricavandone un racconto dal finale aperto: Le pecore di Emiliano. Questo racconto narra, in maniera molto suggestiva e con uno stile assai più maturo delle precedenti prove di Solinas sul racconto breve, la vicenda di Emiliano, servo pastore al quale mancano delle pecore dal gregge. Poiché il padrone decide di fargli pagare le pecore, fatto che in pratica significherebbe per Emiliano l’aver lavorato gratuitamente, il ragazzo decide di andarle a rubare ad un altro servo pastore. Con la realizzazione del furto, descritto in u atmosfera silenziosa e suggestiva, termina il racconto: Emiliano si allontana con le pecore, e già pensa alla strada da fare per raggiungere l’ovile. Il racconto, dopo un periodo esclusivamente dedicato al cinema, almeno ufficialmente, rappresenta il ritorno, fugace e momentaneo, dello sceneggiatore alla letteratura. Tuttavia Le pecore di Emiliano, convertito in racconto, nasce come abbozzo per un nuovo romanzo poi trasformato (o almeno questo è il tentativo) in soggetto cinematografico. Il film avrebbe dovuto avere come titolo L’uomo di punta: la storia di un servo pastore che va a lavorare nelle miniere del Sulcis, con l’intento di ricostituire il gregge che in parte gli è stato rubato in parte distrutto da una moria. Arrivato a Carbonia, il servo pastore porta nell’ambiente operaio, fortemente politicizzato, una volontà individualistica, un anarchismo che nega l’organizzazione sindacale o corporativa ed è refrattario all’azione politica. In breve tempo Emiliano diventa „„l’uomo di punta.., perché il cottimo viene misurato dai padroni sulle basi delle prestazioni individuali, e lui, senza pensare agli altri, lavora come un forsennato per ricostruire il suo gregge, costringendo così gli altri operai a lavorare su ritmi assurdi, e attirandosi di conseguenza la loro ira. Solo dopo vari conflitti con gli altri minatori, il servo pastore riuscirà a capire le ragioni dei suoi compagni e, alla fine, riporterà indietro, nel mondo pastorale, una coscienza nuova e la volontà di combattere le condizioni di arretratezza e subalternità del suo paese, attraverso la cooperazione (sembra di rileggere una parte della parabola di Squarciò, semplicemente rapportata al mondo pastorale).
Nonostante Solinas si vide costretto a rinunciare presto al progetto, ricavandone un breve racconto, tuttavia, la storia di Emiliano è ripetuta, reiterata in almeno due copioni. Se già abbiamo accennato, e tanto basta, al parallelismo fin troppo evidente tra Emiliano e Squarciò, ben altre assonanze vi sono tra il progetto, di cui restano solo testimonianze, e alcune scene presenti in Kapò e La vita è come un treno. Tali assonanze, oltre che confermare l’effettiva esistenza di questa storia tra le carte di Solinas, rendono conto della continua volontà di riscrittura che Solinas aveva dei suoi temi, i quali essendo al di sopra della singola idea, della mera trovata, si possono ripetere, riconfermare, riannunciare in copioni dal sapore totalmente diverso.
In Kapò, la scena 30 e poi la 32 riprendono L’uomo di punta descrivendo Nicole, che proprio come Emiliano, lavora incessantemente alla catena di montaggio, causando la reazione delle altre prigioniere del campo. Le due scene, a voler quasi confermare che fatalmente niente dell’Uomo di punta fosse destinato a convergere in un progetto cinematografico definito e realizzato, vengono tagliate e dunque di loro non vi è traccia nel film di Pontecorvo, se non un leggero sentore nella scena 33 (nella quale si descrive la morte di una prigioniera, giustiziata dai nazisti perché accusata di sabotare i lavori della fabbrica), che dalla sceneggiatura appare quale epilogo delle vicende che la precedono e che invece nel film si presenta come momento drammatico, uno fra i tanti, proposto con l’andamento ellittico ed episodico che caratterizza buona parte della pellicola. La scena 30 rappresenta le prigioniere ferocemente impegnate nel lavoro che appare per loro troppo pesante. Nicole lavora invece «con velocità ed esattezza. E lei che impone il ritmo di lavoro. Non appare esausta come le altre: ma solo accanita, concentrata» e questo le fa guadagnare i complimenti dell’ufficiale di sorveglianza e le occhiatacce delle compagne di lavoro.
Ora che il sorvegliante è lontano, le compagne di lavoro si rivolgono a lei… Le battute si avvertono appena nel FRAGORE DELLE MACCHINE…
– Rallenta! Non ce la facciamo…
– Ci ammazzi, così… Rallenta!
– Nicole… Non ce la facciamo!
Nicole non ferma il lavoro. Risponde senza sollevare lo sguardo…
NICOLE – E io che c’entro?
[…]
KATIA – Ma tu adesso esageri…
Vai ogni giorno più in fretta….
Nicole viene poi punita dalla compagne che la battono, nel buio della baracca nella quale sono stipate, con l’intento di darle una lezione, ma in suo soccorso accorre l’ufficiale nazista Rudolf:
RUDOLF (in tedesco) – Cos’è successo?
NICOLE (in tedesco coi sottotitoli, ansante) – Perché lavoro troppo in fretta…
Questa è la scena che segna, nella sceneggiatura, il definitivo passaggio di Nicole da prigioniera semplice a kapò, e come si nota immediatamente l’episodio ricalca la vicenda di Le pecore di Emiliano, con l’unica differenza che se Emiliano lavora in miniera, Nicole opera all’interno di una fabbrica.
Un intero blocco di scene che va dalla 21 alla 26, rappresentano invece la traccia del progetto “perduto” tra le pagine di La vita è come un treno, ancora un’altra sceneggiatura per un film mancato. In questo caso, il protagonista Jeremia McGuire, lavora in una miniera, accentuando il parallelismo con Emiliano. Già dalla scena 7 il copione descrive il complesso minerario.
COMPLESSO MINIERA – (Esterno Sera)
Un suono struggente di sirena segna la fine del lavoro. L’aria è grigia, fumosa. Grigie sono le strutture della miniera che si inerpicano sulla montagna e poi scompaiono dentro di essa. E sono grigi i capannoni, le baracche, la chiesa, tutto il villaggio sparso disordinatamente in una conca grigia e sassosa, senza verde.
Lentamente, la lunga fila dei minatori discende per una strada piena di buche e di pozzanghere. È gente di ogni tipo e razza: ma tutti hanno le stesse facce, segnate dalla fatica e dalle sconfitte.
L’ingresso in miniera di Jeremia, avviene in scena 23, quando si descrive la sua assunzione. Ma è nelle scene 24 che si ripete ancora lo stesso episodio che sta alla base dell’Uomo di punta: fin dal primo giorno Jeremia lavora a ritmi altissimi, rabbiosamente, favorito dalla sua stazza, e il sorvegliante lo osserva compiaciuto, presentandolo come esempio per gli altri operai.
Il sorvegliante si allontana spingendo il carrello sul doppio binario, che permette ai carrelli di entrare e uscire contemporaneamente.
I minatori hanno già cominciato a muoversi. Avanzano lentamente, disposti a semicerchio, in silenzio.
Jeremia li guarda. Sembra che non abbia capito le loro intenzioni, oppure che non se ne preoccupi. Si volta tranquillamente, e da loro le spalle. 81
[…]
Jeremia comprende la situazione e si volta, piccone in pugno, per difendersi, mentre un minatore impugna, per tutta risposta, un coltello. Il dialogo è indicativo dell’opposizione di un gruppo, sindacalizzato, al singolo, all’individuo.
MINATORE POLACCO – Niente picconi, Jeremia. È la regola… Jeremia avverte l’autorità di quella voce, lo guarda. Istintivamente, quasi per giustificarsi, guarda il minatore che ha impugnato il coltello.
Il polacco ha seguito lo sguardo, e ha capito.
MINATORE POLACCO – E niente coltelli! […]
JEREMIA – E la regola non sarebbe anche di essere pari: uno contro uno?… Anche uno alla volta, se volete.
Il polacco si avvicina tranquillamente, parlando.
MINATORE POLACCO – No. Perché è proprio questo che vogliamo spiegarti: che tu sei uno solo, e noi siamo in tanti.
Jeremia rappresenta chiaramente l’individualismo, l’anarchismo arcaico proprio anche di Squarciò ed Emiliano. Neppure di questa scena, naturalmente, v’è traccia sullo schermo.
Gianni Tetti