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La proposta di Lincoln a Garibaldi

Articolo dello scrittore Antonio Ciotta.

Nella tarda primavera del 1861, a un anno di distanza dall’impresa dei Mille, Garibaldi, dopo che il 27 marzo era stato eletto deputato a Napoli e l’8 aprile aveva fatto la sua prima comparsa al parlamento subalpino in una tempestosa seduta durante la quale, in camicia rossa, poncho grigio sulle spalle e sombrero in mano, aveva lanciato dure accuse al governo, resosi conto che la politica non faceva per lui, era tornato nella pace di Caprera circondato dai suoi fidi. Fra coloro che lo avevano seguito, oltre a Nino Bixio, Giacomo Medici, Francesco Crispi, Gaetano Sacchi e Giuseppe Missori, c’era il colonnello Candido Augusto Vecchi, il difensore della Repubblica Romana, in veste di infaticabile segretario costantemente all’opera con tutti gli altri nella casa di ferro che era stato dono di Felice Origoni. Proprio quell’anno il Vecchi aveva fatto conoscere in tutto il mondo la lontana isola del Generale dando alle stampe il suo libro ”Garibaldi e Caprera”, edito dapprima a Torino e l’anno successivo a Napoli e poi a Stoccolma, Utrecht, Lipsia e Londra nelle traduzioni in svedese, olandese, francese, tedesco e inglese.

Fu l’anno dei ”silenzi di Caprera”, l’anno in cui, anche per la diffusione che ebbe il libro del Vecchi, si consolidò l’oleografica immagine del Cincinnato, cioè di un Garibaldi ormai lontano dai campi di battaglia e totalmente dedito all’agricoltura. Di fatto le cose non stavano cosi: Caprera era costante meta di celate figure e misteriosi personaggi che si recavano nell’isola per trovare l’Eroe ed avere da lui appoggi, consigli e suggerimenti. Venivano emissari governativi ed esponenti rivoluzionari da tutta l’Europa, dai serbi agli ungheresi, dai croati ai greci e ai polacchi. Nella piccola isola, che la Racheli definisce in quel momento ”caput mundi”, si ordivano le fila di tutti i movimenti rivoluzionari europei e non mancavano, di contro, elementi delle intelligences italiane e straniere che sia pur discretamente vigilavano sui visitatori di Caprera e cercavano di carpire e riferire notizie su quanto avveniva attorno a Garibaldi. Nell’autunno venne a trovarlo il socialista tedesco Ferdinando Lassalle con la contessa Hertzfeld per convincerlo a combattere immediatamente contro l’Austria e qualche anno dopo giungerà nell’isola, accompagnato dalla moglie, l’anarchico russo Michail Aleksandrovic Bakunin che si fermerà cinque giorni.

A Caprera, poi, ove arrivavano quotidianamente centinaia di lettere, moltissimi giornali, monitori e gazzette, giungevano dalla lontana America le notizie sull’inizio della guerra civile fra gli Stati del Nord ed i sudisti confederati. Era l’epoca di ”Via col vento” e la stampa di tutto il mondo esaltava quelle battaglie per la libertà degli oltre tre milioni e mezzo di negri, schiavi dei latifondisti del Sud. Quei grandi avvenimenti non potevano non estusiasmare Garibaldi che una sera, a cena con i compagni, fece chiaro cenno agli aneliti di redenzione di quegl’infelici schiavi manifestando il suo rammarico di non essere lì anche lui a combattere per la loro libertà.

La cosa fu raccolta dal Vecchi, che senza dir nulla al Generale, scrisse a New York al giornalista Theodore Thuckermann lanciando l’idea che Garibaldi, al momento ”disoccupato”, avrebbe potuto combattere a favore degli Stati Uniti.
Le mie idee, insapute al nostro capo – scriverà poi il Vecchi – le feci note ai miei amici, che le plaudirono al cielo. E da più innanzi, noi pieni del grandioso disegno popolavamo il deserto dello avvenire di emozioni, di avvenimenti, di città forzate, di popoli riscossi, di luminarie festose, di clericume distrutto e di altre fantasticaggini a genio di fortuna, di menti e di cuore”.

Sembrava un’idea buttata lì senza convinzione in un momento di entusiasmo, ma Tuckermann, che aveva conosciuto l’Eroe dieci anni prima durante il suo esilio americano, prese la cosa sul serio e alla fine di agosto, dopo cauti contatti epistolari con il Vecchi, giunse a Caprera l’ambasciatore americano a Bruxelles Henry Shelton Sanford che, su incarico del segretario di stato Seward e quindi con la piena approvazione di Lincoln, propose a Garibaldi di assumere il comando di una armata nordista.

Garibaldi, colto di sopresa, rispose che avrebbe valutato l’offerta. La cosa lo allettava e lo lusingava, ma ora che l’Italia era fatta non voleva lasciarla senza vedere Roma sua capitale. Prima di dare una risposta, comunque, inviò il colonnello Gaspare Trecchi dal Re per avere il suo consenso. Sperava in cuor suo che il sovrano, ora che Cavour era morto da appena due mesi e che erano cessati gli attriti con il suo avversario di sempre, gli negasse il permesso e che per dissuaderlo gli offrisse qualche comando in Italia.
Sire, – scriveva Garibaldi al Re – il presidente degli Stati Uniti mi offre il comando di quell’esercito ed io mi trovo in obbligo di accettare tale missione per un Paese di cui sono cittadino.
Nonostante, prima di risolvermi, ho creduto mio dovere d’informarne la Vostra Maestà e sapere se crede che io possa ancora avere l’onore di servirla.
Ho il piacere di dirmi di Vostra Maestà il devotissimo servitore G. Garibaldi”.

Sul retro del biglietto scritto da Garibaldi il sovrano annotava: “Si risponda da parte mia in questi termini: Per quel che riguarda la questione degli Stati Uniti faccia quel che gli ispira la sua coscienza, che è sempre il solo giudice in affari di sì grave momento. Qualunque sia la decisione che prenderà, sono più che certo che non dimenticherà la cara Patria italiana che è sempre a capo dei suoi come dei miei pensieri”.

Deluso dall’atteggiamento indifferente di Vittorio Emanuele, Garibaldi ebbe subito l’impulso di partire, ma quando, il 12 settembre, si presentò a Caprera l’ambasciatore degli Stati Uniti alla Corte di Torino P.H. Marsh per conoscere le sue determinazioni, era già deciso a rifiutare. La notizia frattanto era trapelata e da ogni parte gli veniva scongiurato di non lasciare l’Italia. Da Napoli, che lo aveva eletto deputato, giunse poi il generale Carbonelli con un appello sottoscritto da 22.000 elettori.

Ben sapendo che non potevano essere accettate pose quindi due condizioni: avere il comando supremo dell’esercito e poter proclamare egli stesso l’abolizione della schiavitù, cosa che Lincoln farà poi nel 1865 con il 13° emendamento. Gli fu spiegato che per la Costituzione americana il comando supremo dell’esercito spettava al Presidente e che l’abolizione della schiavitù, essendo una decisione politica, doveva anch’essa promanare dal Presidente ed essere poi ratificata dal Congresso. Gli fu comunque proposto il grado di generale di divisione e il comando autonomo di un’armata con la prospettiva di successiva nomina a Maggior Generale, il massimo grado dell’esercito americano, secondo solo a quello del Presidente.

Ma Garibaldi rifiutò l’offerta perchè, come spiegherà dopo, in quella guerra c’erano in ballo tanti interessi politici ed egli avrebbe combattuto “…solo per l’abolizione della schiavitù piena e senza condizioni”.
Oggi – scrive lo storico Arrigo Petacco – questa richiesta sembrerà addirittura pleonastica a chi ha conosciuto la storia americana solo attraverso i film che Hollywood ha dedicato all’epopea Yankee contro i razzisti e schiavisti del Sud, ma nella realtà le cose non stavano così. 
Quella guerra era scoppiata per ben altri motivi e, in quel momento, nessuno a Washington si sognava di mettere in crisi l’agricoltura con l’abolizione della schiavitù”.

Garibaldi, tuttavia, non mancherà anche negli anni successivi di perorare la causa degli schiavi esortando Lincoln dalla lontana Caprera a proclamarne la redenzione.

Dopo le vicende dell’Aspromonte, ove fu ferito il 29 agosto 1862, l’arresto, la detenzione al Varignano e il successivo esilio a Caprera, Garibaldi rimase immobilizzato e inattivo per circa un anno. Continuò, però, a seguire sempre con attenzione la Guerra di secessione e il 6 agosto 1863, il giorno della sua prima uscita dopo la ferita, quando ormai nella guerra civile americana si delineava la vittoria dei nordisti, scriveva ad Abramo Lincoln:
Caro Signore ed Amico, Se in mezzo al fragore delle vostre titaniche pugne, può giungervi ancora la nostra voce, lasciate, o Lincoln, che noi, liberi figli di Colombo, mandiamo una parola d’augurio e di ammirazione alla grande opera che avete iniziato. Erede del pensiero di Cristo e di Brown, voi passerete alla posterità col nome di ‘emancipatore’; più invidiabile di ogni corona e di ogni umano tesoro.
Una razza intera di uomini, aggiogati dall’egoismo al collare della schiavitù, è per voi, ed a prezzo del più nobile sangue americano, restituita alla dignità dell’uomo, alla civiltà dell’amore.
L’America, maestra di libertà ai padri nostri, apre nuovamente l’era solenne dell’umano progresso, e mentre sbalordisce il mondo coi suoi giganteschi ardimenti, fa tristamente pensare come questa vecchia Europa, la quale agita pure si gran causa di libertà, non trovi né intelletto, né cuore per eguagliarla.
Mentre gli epuloni del dispotismo intonano la bàcchica ode, che festeggia la caduta d’un popolo libero, lasciate che i liberi festeggino religiosamente la caduta della schiavitù, arcani paralleli della storia, la rapina del Messico e l’editto di Lincoln.
Salute a voi, Abramo Lincoln, navicellaio della libertà. Salute a voi che da due anni combattete e morite intorno al suo stendardo rigeneratore; salute e te redenta, camitica stirpe, i liberi uomini d’Italia, baciano i solchi gloriosi delle tue catene”.

Chissà se l’esule di Caprera ebbe mai il rammarico di non aver accettato la proposta di Lincoln; “Fu forse la grande occasione mancata di Garibaldi – commenta Montanelli – L’Eroe dei due Mondi era più tagliato per quello Nuovo che per quello Vecchio, e c’era da chiedersi cosa sarebbe diventato laggiù, se avesse aderito all’invito. Con le sue idee semplici, con la sua diffidenza per la politica e la diplomazia, sembrava l’uomo fatto apposta per l’America, innocente e rude di cent’anni fa. In lui c’era la stoffa di Buffalo Bill”.

Una cosa è certa, i tempi erano ormai tanto maturi che l’Italia, anche senza Garibaldi, si sarebbe comunque unificata e Roma ne sarebbe ugualmente divenuta la capitale, ma se l’Eroe, invece di rimanere a Caprera, avesse tentato la sua terza avventura americana, tutta la produzione cinematografica sulla Guerra di secessione sarebbe stata rivoluzionata. “Hollywood – scrive ancora Arrigo Petacco – avrebbe avuto a disposizione un eroe molto più autentico dei vari Buffalo Bill o George A. Custer da collocare nell’empireo della “Nuova Frontiera”, mentre Garibaldi da parte sua avrebbe trovato dei registi capaci di dedicargli dei film certamente meno melensi di quelli che gli ha dedicato Cinecittà” e forse le grandi cariche del 7° cavalleggeri sarebbero divenute degli impetuosi assalti delle Camicie rosse.

Vedi anche: Quando l’America sognò Garibaldi comandante delle armate dell’Unione

Antonio Ciotta